L'ANARCHICO NON È FOTOGENICO

1° capitolo di “Tutto è bene quel che finisce”

(3 capitoli per una buona morte)

1 / L’anarchico non è fotogenico
2 / Io muoio e tu mangi
3 / Lei è Gesù

L’azione è condotta in 3 capitoli, che si sviluppano dal nucleo centrale “Tutto è bene quel che finisce”. L’opera shakespeariana a cui fa riferimento il titolo, attraverso un’elusione ci dà la possibilità di affermare una nuova prospettiva rispetto al concetto di fine.
I 3 capitoli saranno concepiti sia come performance autonome, della durata ancora da definire, sia come un’unica partitura. La temperatura in cui sperimenteremo questa reazione, rispetto a quella che ha segnato la cifra della “Trilogia dell’inesistente”, si presenterà alterata, febbricitante ma non febbrile, tormentata dagli attacchi del buon senso e del luogo comune.
Un percorso che si svolgerà in forma di dialogo e di monologo, utilizzando e contraddicendo le convenzioni del linguaggio teatrale, provocandosi limitazioni entro cui ripensarsi.
Riferire l’avventura del reale che nel presente si compie, e come un filtro al contrario trattenere le particelle invisibili che rischiano di disperdersi, di svaporare nell’inutilità.

I conduttori o guide
. La centralità della parola, intesa come corpo del pensiero, come nucleo essenziale dell’esperienza scenica.
. La sottrazione della messinscena non rappresenterà una negazione quanto una decontaminazione, uno spurgo, nella direzione di una personale e per quanto possibile sincera ricerca del nuovo.
. L’elaborazione di un rapporto critico con lo spettatore, senza timore di svelare il punto di vista, non necessariamente alto e condivisibile quanto in grado di attuare una reazione, così a produrre l’interazione.

Il principio di buona morte, legato al concetto di fine o accelerazione di una fine certa, si intreccia con l’interesse a confrontarci  sulle eutanasie negate, riferite non solo al campo medico-scientifico ma anche a quello della politica, della biopolitica e della cultura.
Dal giuramento di Ippocrate al giuramento di fedeltà alla Repubblica, ciò che sembra concepito a tutela dell’interesse comune può configurarsi come una sottrazione dei diritti, da quelli che attengono al libero arbitrio a quelli legati al principio di uguaglianza.
Quale linguaggio può declinare e restituire valore ai tanti bà-sta! che vorremmo pronunciare? Un’esclamazione forte, quasi performativa: la sua pronuncia vorrebbe segnare la fine di qualcosa, tracciando il limite dell’opportunità o della sopportazione.
La forza dinamica di questa parola sta proprio nella sua autentica aspirazione a generare una cesura, una frattura fra presente e futuro.
Ci poniamo sui margini di questa cesura attraversando ciò che a nostro avviso necessita di essere ripensato, dal rapporto con la morte a quello con la bellezza, dal senso del teatro alla sua relazione con lo spettatore e ancora: dove si colloca oggi il teatro contemporaneo, in quale organo del corpo sociale? Nella mente o nello stomaco, in attesa di essere digerito? O tenta acrobaticamente una sintesi che appaghi l’una e l’altra istanza?
Tenteremo una nuova sintassi sociale e teatrale, cercando di scombinare le vecchie strutture e realizzare nuove combinazioni, osservando gli effetti che queste combinazioni hanno su altri piani, in un effetto domino che per contaminazione di strati esploda una mutazione.
Saremo i reagenti, provocheremo urti sufficientemente drastici e correttamente orientati perché la reazione abbia luogo,  provocando nuovi paradigmi con cui orientarsi.

Il primo capitolo, L’anarchico non è fotogenico, vuole affrancarsi dall’egemonia mediatica dell’immagine che impone parametri oggettivi sia rispetto alla bellezza, sia all’etica e all’ideologia, tentando di affermare la peculiarità del difforme e dello sgradevole come possibilità autentica di superamento della visione monolitica degli orientamenti valoriali. Ci lasciamo ingannare dall’immagine per convenzione o davvero crediamo di scorgere una sagoma su quei piedistalli?
Sollecitiamo i lapsus dello spirito, il frugare nell’umano e l’in-sano ragionamento generatore di logica a sorpresa. Sintonizzarsi con lo spettatore per complicità e non per seduzione, evitando la disonestà dell’esibizione, sollecitando un intelletto disobbediente e operativo.

Il secondo capitolo, Io muoio e tu mangi, rimprovero rivolto al figlio dal padre morente, amplifica da una parte l’implorazione inascoltata di una buona morte, la medicina sconfitta che impone sofferenza e lo spietato rigore di una presunta superiorità morale che non sa accogliere la disponibilità della morte; dall’altra ripensa il concetto di lotta di classe, l’utopia dell’uguaglianza come strategia del linguaggio politico che si avvale della credulità del popolo per saccheggiarne il futuro. L’inizio della vita è stato notevole, lo sarà anche la fine? Forse è giunto il momento di chiedersi se tra l’inizio e la fine il tempo è stato rilevante e se deve diventare degno di essere notato.

Il terzo capitolo, Lei è Gesù, propone un Cristo donna che non si sottomette al volere del Padre negandosi alla crocifissione. Il pragmatismo femminile irrompe per rivelare gli esiti scontati, le battaglie inutili, e il perdurare dell’isolamento della sua vivace consapevolezza, della marginalità in cui il linguaggio stesso la rilega. Dalla “Carta dei diritti dell’uomo Onu” all’art. 2 della nostra Costituzione “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” è un susseguirsi di volontarie e mai denunciate elusioni. Aleggia in Lei è Gesù una psicopatia surreale, un deficit di empatia, uno squilibrio puerile e bislacco. Quale perversione intellettuale può generare un linguaggio che riconosca l’identità di genere? Far rimescolare i sensi e le priorità, perdere il controllo.