GRATTATI E VINCI

Quotidiana.com: se l’ironia sfida (e batte) la pennichella

Divertirsi e riflettere anziché morire dal sonno. Sorridere, attraverso una comicità che è sempre lì lì per consegnarti a Morfeo. Chi la vince tra humour e pennichella?
Tutto si può dire del duo (sul palco e nella vita) Quotidiana.com, tranne che non abbia una sua personalissima cifra. Grattati e vinci, in scena al Teatro della Contraddizione di Milano, è la terza tappa di una Trilogia dell’inesistente in cui Roberto Scappin e Paola Vannoni rivisitano in maniera sarcastica il rapporto di coppia. Giocandosela, scientemente, sul soporifero. Preservando un’amarezza di fondo.
Asettica la scena, con un paio di luci gialle al neon, un tavolo, cui sono appoggiate un paio di sedie, un vaso da fiori, con dentro carote e sedano. Se è vero che siamo ciò che mangiamo, anche il cibo di questa coppia è mesto e insipido.
Lo spettacolo: un uomo e una donna basiti e storditi stanno tiepidamente bene insieme. A modo loro si amano. Con toni che sono quelli che si possono trovare in tutto il mondo. Eppure qualcosa manca per rendere la loro vita più sapida. Perché il rapporto decolli non basta che i due si facciano da specchio riproducendo, alla velocità del bradipo, i medesimi movimenti “telefonati”.
Una comicità surreale, flemmatica, seriosamente spiritosa. Per interrogarsi sulla ricerca di una felicità sempre più difficile da trovare, da soli o in coppia. Freddure a gogò nei dialoghi che strizzano l’occhio alla vita reale: Siamo dei manichini viventi, e quando saremo rimbambiti, raggiungeremo la perfezione. Oppure, dal panettiere: – Mi dia un chilo di pane. – Ma così le diventa duro. – Allora me ne dia quattro.
Si parla del più e del meno, di tutto e di niente. Dalla religione alla politica, dal sesso all’alimentazione. Filosofia e frasi terraterra. Con un uso sapiente, complesso e articolato, della parola.
«Che pericolo la quotidianità, e la tranquillità» canta Fiorella Mannoia. Scappin e Vannoni hanno il gusto della sfida: divertire a ritmi slow. Sale e pepe q.b. Una volta al giro d’Italia c’era la maglia nera. Doveva arrivare ultima alla fine della competizione. Era premiata, ma stando attenta a non finire fuori tempo massimo. Ci volevano arte e calcolo.
Recitazione neutra, Grattati e vinci. Vita di coppia piatta. Cinquanta sfumature di grigio, nulla a che vedere però con il romanzo osé di E. L. James. Sarcasmo e indolenza dilagano. La luteolina nelle carote di cui i due si cibano non serve ad attivare neuroni performativi, né ad assimilare la loro vita coniugale a quella dei conigli: sul palco, come nella vita, fare l’amore può mancare, eccome.
Lui e lei, melanconici e ipocondriaci, temono la vecchiaia e la malattia. Troppo pigri perché continuino a vivere. Troppo pigri pure per ammazzarsi.
Una vita che è gabbia, divieti e obbedienze. Ci sarebbe da ribellarsi, da mettere il mondo a soqquadro: meglio dormirci su. Però Scappin e Vannoni un sussulto ce lo regalano, il duetto in cui imitano Stanlio e Ollio. Ma si fa più audience e meno fatica calandosi le braghe e tirandolo fuori, pensa Scappin.
In quest’esibizione dall’ironia intima e sopita, dove la bocca dello spettatore se la gioca sul doppio registro del sorriso e dello sconcerto, emerge l’identità totale tra persona, attore e personaggio. L’autenticità guarda all’arte.
Grattati e vinci non è uno spettacolo per tutti i palati, ma è colto e originale. C’è una buona drammaturgia. Intelligenza. E uno stile. Se volevate ritmo e suspence, avete sbagliato serata.
Sarebbe curioso vedere questo copione recitato da attori classici, davanti a un pubblico più generalista. E vedere di nascosto l’effetto che fa.

 

 (Vincenzo Sardelli, 7 marzo 2014, paneacquaculture.net)

[Teatri di Vetro che non hanno paura]

Roberto Scappin e Paola Vannoni, ovvero quotidiana.com, portano al Palladium il terzo episodio della Trilogia dell’inesistente, formatasi con gli spettacoli “Tragedia tutta esteriore” e “Sembra ma non soffro”. Grattati e vinci conclude questi “esercizi di condizione umana” e, personalmente, ci permette di scoprire due attori forti e particolari.
Un uomo e una donna, un tavolo e due sedie, dei neon acidi, un tappeto di noia. Increduli assistiamo ad un dialogo dai toni surreali. Anzi, i due comunicano senza toni, in una lingua che accusa il torpore del tempo fermo, dell’immobilità. Come se si parlasse di definizioni enigmistiche, qui si parla di amore, di vita, sopravvivenza, sesso. Ciniche e affilate come coltelli, le due anime si stuzzicano e si scontrano solo da lontano, senza mai spostare il perfetto equilibrio dei movimenti minimi e misurati. Tutto è freddo, pulito, eppure non si fatica ad immergersi nella tangibilità di quanto dicono… Il pensiero assillante del futuro, di una utopica pensione, l’amore apatico, il progetto di un’associazione a delinquere, addirittura la concezione di un melodrammatico suicidio di coppia, impensabile per questi due esseri inerti. 
Il paradosso fra concetti ed espressione degli stessi fa del dialogo un rituale fantastico che porta alla luce le dinamiche della conversazione , della parola stessa e del suo senso più profondo. Il testo prende così delle pieghe inaspettate, avvalendosi di un’ironia affilata e intelligente.
L’incapacità (o forse l’impossibilità) di compiere qualsiasi azione che sia “vita”, le lunghe pause, la lentezza e lo studio millimetrico di ogni gento lasciano pensare a quelle che possono essere le radici reali di questa pièce, e cioè l’inettitudine dilagante, la noia, l’angoscia dei quesiti senza soluzione, il catastrofismo dell’oggi. Neanche il teatro ha più niente da dire, tanto che l’unica cosa da fare, a volte, pare essere calarsi le braghe in un finale che, purtroppo, il pubblico non coglie al volo.
Interessante lo studio dei due attori, non tanto per le modalità immobili e atone della messa in scena che già conosciamo, quanto piuttosto per la ricerca verbale che costruisce un testo immediato e provocatorio.
E finalmente, (grazie), non dobbiamo assistere ai soliti, violenti e monotoni cliché del litigio di coppia.



(Lou Andrea Dell’Utri Vizzini, LesFlaneurs.it 25 aprile 2013)
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Terzo e conclusivo episodio della Trilogia dell’inesistente esercizi di condizione umana (gli episodi precedenti sono Sembra ma non soffro del 2010, presentato a Teatri di Vetro V, del quale abbiamo avuto già modo di parlare) e Tragedia tutta esteriore del 2008, spettacolo vincitore de Loro del Reno Teatri di Vita, Bologna).

Grattati e vinci (2011) di e con i riminesi Roberto Scappin e Paola Vannoni aggiunge un tassello al loro particolare teatro di parola che, paradossalmente, è il meno di parola che ci sia.
La parola del loro teatro non costituisce infatti una prosa che si fa tramite di una rappresentazione per evocare sulla scena un altrove sul quale ci vuole far riflettere.
La parola stessa diventa performance, qui e ora, e centro del discorso critico che i due autori interpreti mettono in atto nel momento stesso del suo formarsi.
Una parola che è esempio di una forma ideologica che i due autori criticano nel momento stesso in cui la impiegano e le danno vita, grazie a una recitazione antinaturalistica che la sgancia da ogni effetto rappresentativo, presentandola come pura forma del pensiero, quello autoindulgente ipocrita e post-borghese della nostra contemporaneità, che i due autori interpeti scolpiscono col cesello sottile di una ironia caustica e brillante tramite un testo che sa cogliere anche dall’estemporaneità del luogo in cui viene messo in scena elementi di stimolo critico (come gli accenni allo spettacolo di Cosentino).
Forse penalizzato dall’ora tarda di programmazione (le 23) Grattati e vinci che avrebbe meritato non solamente il pubblico nottambulo ma anche quello più presenzialista della prima serata ci propone una lettura sociale che non scade mai in sociologismi da primo anno di università e che vede nella solitudine nel sesso nella religione e nella maturità e nella vecchiaia pensionistica le coordinate entro cui l’umanità contemporanea annaspa e dissimula la propria vacuità esistenziale aggrappandosi a un narcisismo che dice io in realtà dicendolo solamente per nascondere la paura della solitudine e del fallimento delle relazioni interpersonali.



(Alessandro Paesano, Teatro.org)
spettacolo visto il 25/04/2013 a Roma (RM) Teatro: Palladium
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La comparsa di Quotidiana.com di fronte al grande pubblico della scena nazionale è coincisa con un pressoché immediato fissarsi di una forma.
Se la scrittura di Paola Vannoni e Roberto Scappin, davvero eccezionale nell’uso di ironia e sarcasmo sottili e prepotentemente dissacranti, ha saputo inquadrare una realtà riferita attraverso un filtro caustico quasi senza paragoni è anche e soprattutto perché si è unita a una forma, appunto, originale.
Il ritmo gelatinoso e subacqueo cui i dialoghi di Vannoni e Scappin si abbandonano passa attraverso una modulazione vocale da sacrestia, i loro sono discorsi da notte fonda, i movimenti schematici, geometrici ed essenziali e le luci che rimandano al bagliore del frigorifero in una cucina buia stanno già definendo un piccolo universo di segni.
Nella melassa drammaturgica del loro ultimo Grattati e vinci scivolano e restano appiccicati frammenti di altri spettacoli visti al festival, impastati in una costante deformazione dei codici del ragionamento, una vena di messaggio che pompa sangue pigramente, agendo sempre alla periferia dei concetti.
E accade a volte che quella voce sussurrata e il sentimento di totale inanità che ne deriva diventi quasi musica di per sé.
A Babilonia le invettive, a Quotidiana le confessioni.

 

(Sergio Lo Gatto, Teatro e Critica, 24 luglio 2012)
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Forse la vera rivelazione del Festival è  lo spettacolo “Grattati e vinci” di Quotidiana.com, duo riminese fondato nel 2003 da Roberto Scappin e Paola Vannoni, attori di questa messa in scena che va a concludere gli “esercizi di condizione umana” con il 3° episodio della Trilogia dell’inesistente dopo i primi due: Tragedia tutta esteriore (2008) e Sembra ma non soffro (2010).
Un allestimento in sordina, quasi sussurrato, in un luogo chiuso periferico a Santarcangelo- bisogna cercarlo ed arrivarci in auto- ma che lancia il suo messaggio chiaro, sintesi delle inquietudini del nostro tempo: la crisi del teatro, dello spettatore, del vivere in senso complessivo.
Lo spettacolo, che apparentemente descrive il vuoto interiore dei due protagonisti, incapaci di reagire ad una noia profonda, che sembra azzerare slanci e velleità di cambiamento, in realtà è un’indagine attenta e  minuziosa dello scorrere del pensiero nel suo farsi. I due attori, uno di fronte all’altro, colti nella quotidianità di una stanza dove si indovina abitano, ci propongono un intelligente, ironico, divertente, e a tratti profondo e cinico dialogo a due, capace di mettere a nudo le dinamiche della conversazione.
Un dialogo che, tra pause significative e battute serrate, affronta le tematiche più disparate nel tentativo di dare un senso al vivere: dall’amore alla preoccupazione per il futuro, dalle pensioni ad un piano di suicidio collettivo, fino alla progettazione di un’associazione armata a delinquere. Nonostante la pregnanza drammatica delle conseguenze, se agite, tutto rimane sospeso in un velo immaginifico, metafora dell’incapacità, o forse dell’inutilità, di qualsiasi azione, con risvolti umoristici imprevisti.  Ciò che stupisce positivamente nello spettacolo è l’intelligenza del testo, che mai si lascia sedurre dalla banalità e che trova sempre un’impennata,  una nuova direzione di sviluppo. Altrettanto efficace la recitazione, sempre aderente e convincente, incurante quasi di un pubblico complice in ascolto e catturato da subito all’interno di un cerchio magico.
Lo spettacolo non si chiude. Sull’emblematica ultima battuta di lei “E’ la morte del teatro”, quando lui in assenza di altre idee si cala i pantaloni, la piece si sospende, rimandando il finale al pubblico, cui i due bravi attori lanciano la palla, chiedendo la collaborazione di due spettatori per chiudere lo spettacolo. Una chiusura significativa, a dimostrazione dell’ovvietà del parallelismo vita/ teatro e attore/spettatore, entrambi  intrappolati in un contesto demotivante e in cerca di una via d’uscita.
In un clima di intimità collettiva la sfida  non può non essere accolta. Due spettatori entrano nel palcoscenico. Si capisce da subito che non c’è imbarazzo, né distanza e il teatro/vita ricomincia.

 

(Emanuela Dal Pozzo, Traiettorie, 2 agosto 2012)
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(…) Anche Roberto Scappin e Paola vannonisi pongono molti quesiti di difficile risposta nel loro Grattati e vinci, terzo episodio della Trilogia dell’inesistente_esercizi di condizione umana. Interrogativi esistenziali determinati dall’incompiutezza dell’essere umano in perenne ricerca di senso.
Visto al Vie Festival di Modena nel 2011, la nuova versione presentata a Santarcangelo ha dimostrato un sensibile ripensamento sulla stessa struttura drammaturgica, cogliendo un potenziale espressivo che ha permesso di riformulare la stessa messa in scena.
L’efficacia del testo dove la parola per un processo alchemico, capace di filtrare le scorie di un dialogo mutuato fino ad assumere caratteristiche dialogiche capaci di simulare qualcosa di simile a orazioni/ litanie nel solco di una laicità che si amalgama in un impasto di pensieri, parole e azioni non determinate da un preciso scopo. Come qualcosa di ineluttabile a cui l’uomo va incontro senza per questo capirne le conseguenze. Un arredo sulla scena convenzionale quanto ordinario: un tavolo, due sedie, un vaso con un mazzo di sedano. Luci acide. Un rettangolo circondato dal nero.
Due pedine umane mosse da un invisibile essere superiore che determina domande e risposte dove l’interrogativo si rinfrange su un muro di gomma e rimbalza, senza mai trovare conforto in una spiegazione esaustiva. Come un sottile e perfido gioco tra partecipanti consenzienti. Non c’è nulla di irrealistico in Grattati e vinci ma solo la capacità di amplificare l’assurdo e molliccio habitat dove l’uno non ascolta l’altro. Ognuno è proiettato in un suo solipsistico se non autistico mondo da cui è impossibile uscire.

 

(Roberto Rinaldi, Rumorscena.com, 31 luglio 2012)
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Cinque neon, un tavolo con sedie, una composizione di sedani e carote, due figure curve che stazionano ai lati della scena. Una natura morta con fantocci umani, svuotati di entusiasmo e privati di desideri. Roberto Scappin e Paola Vannoni, autori e interpreti di “Grattati e Vinci”, tenendosi a debita distanza, si guardano e dialogano di problemi sentimentali, attualità politica, complicazioni sessuali.
Dal pensiero fisso della pensione alla possibilità di fare un figlio, dalla malattia all’invecchiamento, dalle gite alla Caritas al suicidio di coppia. Stanchi dell’amore, nauseati dal sesso, che fanno da fermi con movimenti minimi, i due protagonisti sono avviluppati in una spirale di ozio, debolezza fisica e stanchezza intellettuale.
Terzo capitolo della “Trilogia dell’inesistente_esercizi sulla condizione umana”, lo spettacolo di Quotidiana. com, volutamente indolente, intenzionalmente ironico, restituisce l’immagine di una coppia moderna, alle prese con dubbi lavorativi e apatia esistenziale.
Il duo riminese mostra che credere nelle sorprese della vita come nei premi dei grattaevinci è inutile. Tanto che non c’è una vera conclusione per la pièce, una soluzione o un colpo di scena. “Grattati e vinci”, rappresentato allo Spazio Liviana Conti, finisce così com’è iniziato: una natura morta con fantocci umani, svuotati di entusiasmo e privati di desideri.

 

(Rossella Porcheddu, Che teatro che fa, Repubblica.it 19 luglio 2012)
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Un campo di battaglia domestico. La trincea: un tavolo e due sedie. Le armi: parole, pensieri, un’ironia sottile venata di ilare cinismo. Nessun corpo a corpo, ma mente a mente verso solitari percorsi che smascherano convinzioni, logiche paradossali, tra serietà e leggerezza, banalità e temi profondi. Spiritoso e riflessivo lo spettacolo del duo riminese Quotidiana.com (Paola Vannoni e Roberto Scappin) andato in scena a Santarcangelo 12. Festival internazionale del teatro in piazza con Grattati e vinci, terzo e ultimo episodio della “Trilogia sugli esercizi di condizione umana”.
«Il primo episodio è stato un’analisi della coppia, il secondo una riflessione sulla fede, la spiritualità – racconta Paola Vannoni – questo sulla necessità di fermarsi e analizzare la propria esistenza». Da qui il titolo? «È la filosofia del non far niente per essere vincente, piuttosto che cercare continuamente di afferrare la felicità. L’ozio è il tempo di guardarsi intorno per capire chi si è. E poi c’è l’idea dell’illusorietà, i gratta-e-vinci sono effimeri per natura». Lentezza, pose statiche e un senso di vuoto esistenziale che diventa concreto protagonista in movimenti, flessioni, voli pindarici per parlare, con serietà e sorrisi, di politica, gerarchie, ingiustizie, morte, pensioni, sesso, amore, illusioni, speranze. C’è un tema in particolare dal quale siete partiti? «Non ci sono tematiche privilegiate se non quella dello sguardo disilluso, tagliente sui dogmi, sulle certezze, sulle convinzioni. Proviamo davanti a una telecamera, ci facciamo delle domande, registriamo quello che nasce e poi scegliamo. Sicuramente vogliamo mettere in rilievo la rassegnazione che vediamo nelle persone di fronte alla realtà di oggi, l’essere disorientati, il non saper prendere delle decisioni, l’incapacità di vivere la vita». Poligoni ideali, strategie di ribellione surreali si colorano di sorrisi e di quell’inerzia esistenziale che è il male della società e di riflesso anche del teatro. «Il finale in cui Roberto si cala i pantaloni indica la fine del teatro, un teatro in cui non si ha più nulla da dire. Un finale che è anche metafora del fatto che non si trova il modo di uscire da questa situazione. Con ironia parliamo di un certo linguaggio che utilizza parole come “performance” per divagare, per non ammettere che il teatro latita». E poi un tocco di originalità. In scena vengono chiamati due giovani stagisti a dire la loro sullo spettacolo. «Ci interessa avvicinarci al pubblico, incontrarlo, dialogare con lui, trovare un contatto, noi vogliamo invitarlo a prendere coscienza della propria importanza, fargli capire che anche lui è responsabile di questo percorso».

 

(Serena Macrelli, Corriere Romagna, 18 luglio 2012)
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La parola prende vita e si diffonde.
Grattati e Vinci – Vie Festival


Assenza di peso alle parole come una sospensione temporale, in un vuoto pneumatico, senza emotività, priva di suono, di interiorità (apparente ma volutamente creata ad hoc), non giudica e non si fa giudicare. Una specie di sinestesia delle emozioni, priva di rapporto empatico se ascoltata con il cuore. Non deve arrivare di pancia, ma è cerebrale, volutamente distaccata. O per lo meno questa è la percezione provata, ascoltando (l’udito come un radar che capta suoni nell’etere) la voce di Roberto Scappin e Paola Vannoni, in Grattati e Vinci, nei loro “esercizi di condizione umana” … “nell’atto del creare attraverso i mezzi stessi dell’impotenza”. In queste parole scritte dagli autori/interpreti c’è la spiegazione della loro ricerca compiuta e portata avanti nel corso della loro carriera artistica, là dove spiegano – ancora – che “l’impotenza non come gesto attonito ma appropriazione di una volontà che non si sottometta ad un’ereditarietà ideologica” (….) con l’intento di “sollecitare una lettura critica del reale, articolando la moltiplicazione del dubbio, per condividerlo con lo spettatore nella membrana pulsante della sua inquietudine.”. Parole esplicitate con chiarezza che non lasciano dubbi alle reali intenzioni scelte dal duo Quotidiana.com, dove si dichiarano da sempre protagonisti di una ricerca estetica –espressiva – linguistica, senza mai far abdicare l’importanza della parola. Non c’è “rifiuto”, nella sua origine semantica, bensì l’urgenza di scovare attraverso una forma artistica e teatrale (anti teatrale in verità) le verità scomode in ciò che è, a volte, perfino considerato “non corretto pensare”.
La parola fuoriesce là dove il non detto cela nelle menti e nell’ideazione di molti. Pensieri celati dall’ipocrisia imperante che aleggia sovrana nella società d’oggi. Grattati e Vinci pungola le contraddizioni, gli stereotipi, le convenienze sempre più indecenti e prive di etica, così diffuse nell’uomo qualunque. La creazione drammaturgica, esposta in una particolare forma di dialogo a due, sembra assomigliare a due monologhi solipsistici, là dove i due protagonisti in scena sembrano trasmettere ciò che viene creato dalla propria coscienza, un dettame proveniente da una personale morale. Rigorose leggi del proprio io e non scaturite da regole esterne.
La direzione intrapresa a suo tempo in Tragedia tutta esteriore e Sembra ma non soffro, ora tocca aspetti più intimistici e laici del nostro vivere quotidiano (da cui deriva la scelta di chiamarsi Quotidiana..), le ansie e le sofferenze esistenziali tipiche di un malessere in assenza di coesione, comprensione, tra esseri umani, capaci di idolatrare falsi miti, alla rincorsa perenne dietro al baluginare di estemporanee felicità artificiali: «È meglio morire felici che aspettare che la mia malattia ci uccida», frase che drammaticamente possiamo recuperare in fatti di cronaca accaduti, dove il dolore e la paura portano a gesti estremi come il suicidio. Ci si sente soli e sperduti. In Grattati e Vinci il tema portante è il rapporto con il denaro che fa dire, ad esempio a Paola Vannoni: “Ero in un tabaccaio, ho comprato un biglietto del bus e una signora mi ha chiesto se fosse il nuovo Gratta e Vinci, così le ho detto di no, ma le ho detto anche che se voleva poteva grattarlo, ho immaginato che si è totalmente asserviti all’idea che anche non facendo niente, ci sia il modo per avere soldi, basta grattare. O grattarsi». Lo dice con quella “apatia” che contraddistingue la recitazione di tutti e due i protagonisti, scarna, indolente, senza toni espressivi, volutamente negati ed evitati, si estende simmetricamente, quasi assente nel suo trasmettere le vibrazioni emotive che stanno alla base di ogni sentimento umano: felicità, dolore, rabbia, frustrazione.
I due performer parlano di vita e di morte, sui guasti della nostra era mediatica, sull’impotenza pessimista di fronte a interrogativi esistenziali, una forma metafisica di teatro dell’assurdo, del nulla, ironica (un valore aggiunto al loro lavoro), dove prendono posto citazioni colte e inserti banalizzanti quanto lo sono quelli del nostro parlare e agire quotidiano (il cerchio si chiude), e loro lo spiegano quando parlano di “sciocchezze come spiragli dell’intelletto”. La riserva sul loro lavoro è dettata dalla fatica percepita a tratti, nel tentativo di entrare dentro questa dimensione meta-teatrale, dove l’appiattimento volutamente esasperato della parola – suono, risulta ostica da metabolizzare, a fronte di una struttura drammaturgica (testo – concetti – critica) coerente e assolutamente necessaria per chi come i Quotidiana.com, desiderano andare al di là della crosta superficiale della vita. Sotto c’è qualcosa di più perturbante dei miraggi propinateci ogni giorno. Forse vale la pena trovare delle soluzioni aggiuntive a supporto di una maggiore concentrazione e respiro, di aiuto e facilitazione per il pubblico, per evitare cali di “ascolto” e una partecipazione non solo riflessiva, così come è accaduto al TETE Teatro Tempio di Modena.



(Roberto Rinaldi – www.rumorscena.it  15/11/2011)

Il dramma

Grattati e vinci esorta il titolo. Dalla compunzione un invito alla ribellione e dall’umorismo l’antifona alla riflessione, al riesame della realtà. Grattati e vinci è l’ultimo atto della trilogia dell’Inesistente dei Quotidiana.com: un uomo e una donna amanti quotidiani discorrono negoziando lui un amplesso che non arriva mai, nemmeno immaginario. Un’impotenza creativa, un’inerte varietà espressiva accendono pensieri vitali; arriva il suicidio come rimedio sociale alla pensione, l’appello alla lettura compiacente, l’iconoclastia ideologica alla portata di due fumetti. Anche Gesù nascostamente in scena.
L’orgoglio dell’inettitudine e del tedio domestico contro l’affanno merceologico; tutto dentro un palco scarno, due precari sgabelli e due ortaggi in gialle luci al neon.
Pruriginosi e sofisticati stimoli da un dialogo deformante.
Grattati e vinci di Quotidiana.com, VIE 2011, Teatro TeTe, Modena


(Michele Montanari, 21 ottobre – gagarin-magazine.it n°11 novembre 2011)

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Al Teatro Tempio
Quotidiana.com
Stupore contro la rassegnazione

Arrivano in teatro prima di tutti e sono seduti sul palco, chini con la testa sorretta dai propri pugni: Roberto Scappin e Paola Vannoni dei Quotidiana. com attendono che il pubblico entri in sala per lo spettacolo “Grattati e vinci”, ultimo episodio della loro “Trilogia dell’inesistente”.
Le battute pungenti e comiche, che l’uomo e la donna scambiano, si riflettono nella luce acida e astringente dei neon sulla scena. I temi si oppongono all’idealismo, scalano la caducità della vita umana e la truffa diacronica dei rapporti intimi. Gli attori ci faranno sorridere spesso, accarezzando il cuore con la grazia di chi sa che lo stupore può distogliere dalla rassegnazione.
Ancora stasera a Vie, al TeTe Teatro Tempio alle 19.30.

 

(Bernardo Brogi, Gazzetta di Modena 22 ottobre 2011)

Al Teatro Tempio
Il presente dei Quotidiana.com
“Grattati e vinci” chiude la “Trilogia dell’inesistente” dei riminesi

La compagnia riminese Quotidiana.com porta nel nome il rovello dell’indagine che è al centro della sua “Trilogia dell’ inesistente”: indagare attraverso piccoli spostamenti del linguaggio la banalità (e il male che la accompagna) in cui è immersa l’esistenza, quel chiacchiericcio mellifluo e senza via d’uscita che sembra essere diventata la contemporaneità. “Grattati e vinci” sarà in scena da oggi fino a sabato al Teatro Tempio di Modena, e costituisce il terzo e ultimo episodio della trilogia sugli “esercizi di condizione umana”. Anche in questo caso, come negli altri due lavori, troviamo Roberto Scappin e Paola Vannoni in una posa statica e scomoda, in equilibrio su due sgabelli da campeggio, intenti a snocciolare un dialogo surreale che solo apparentemente è un dialogo tra due astratti personaggi. L’obiettivo della trilogia, difatti, non è di portare pedissequamente sul palco scene tratte dalla quotidianità – che in questo lavoro fa riferimento, nel titolo, alla speranza a poco prezzo di una lotteria e, nella scenografia, al sogno di una fuga vacanziera dal reale – ma di disegnarlo per approssimazioni, giocando col senso delle parole per trasformarle in immagini surreali, che sanno sfociare in un’ironia tagliente. L’ambientazione minimalista e la recitazione compassata e senza appigli di interpretazione agiscono come una lama, aprendo squarci comici inaspettati, in cui la spirale di perdita del senso diventa immediatamente qualcosa di più. Ma non è solo la critica alla società che emerge dalle drammaturgie asciutte eppure debordanti del duo riminese: quelle due figure ingessate che impersonano, animate solo di nonsenso e di  gesti minimali, trasudano anche una solitudine senza via d’uscita e senza più ansia di riscatto.



(Graziano Graziani, Gazzetta di Modena 20 ottobre 2011)

QuotidianaMente Lari

Il nome rivelazione della giornata del 23 luglio 2011 al Festival Collinarea XIII di Lari è Quotidiana.com. La compagnia di Santarcangelo ha aperto le danze, a seguire Civica e De Summa.

Come strutturare un palinsesto è un grattacapo degli ultimi 25 anni, da quando zia televisione è diventata la zia nazionale di tutti. Un palinsesto rovesciato, quello della giornata del 23 luglio a Lari, rispetto a ciò a cui siamo abituati.
Prima fascia oraria concomitante ai pasti o poco successiva: solo per chi sceglie quel programma, quel prodotto, quella compagnia. Il pubblico è principalmente specializzato, ben equipaggiato per sopravvivere alla bora del castello di Lari, non stacca un secondo gli occhi dal palco da quel che sta accadendo o non accadendo. In televisione normalmente per l’alta qualità dell’opera, verrebbe trasmessa dopo Marzullo, quando anche i nottambuli stramazzano al suolo.
Rivelazione della serata la compagnia Quotidiana.com che presenta un primo studio di “Grattati e vinci”, con prima nazionale che si terrà nel corso del mese di Ottobre al VIE Festival di Modena.
Lo spettacolo si inscrive ne “La trilogia dell’inesistente”: il beckettiano duo che richiama i protagonisti di Waiting For Godot si interroga sul senso tragico, sulle connessioni tra estetica, ideologia e performance, sul sapersi collocare in questo mondo (“c’è sempre da fare i conti con la propria ignoranza”), sulla vita, sulla morte, sulla verità, sulla cultura mediatica dei giorni nostri, sui retaggi della nostra nazione, mescolando il tutto con sapienza ed ironia. Lo spettacolo si conclude con la coppia che riduce l’atto sessuale al minimalismo più estremo.”Credo nella necessità di mettere tutto in discussione” è forse la frase che maggiormente spiega questo spettacolo e questa forma di dramma-conversazione.
Seconda fascia oraria: format per famiglie, tanti bambini, lectio che vorrebbe essere all’altezza della Melevisione ma che non ce la fa. Sbadigli, poca luce, disattenzione ed un caldo da interni che si contrappone alla fredda performance. Per l’inter-actio che vorrebbe avere ma che è quasi nulla in televisione troverebbe il suo spazio dopo il telegiornale della sera, tra una parola spesa coi commensali ed una riflessione che ancora una volta ci ripetiamo a gran voce: la scatola magica è l’emblema della solitudine e dell’incomunicabilità tra le persone.
Terza fascia oraria: bollino rosso, esclusivamente per adulti, per chi ama le emozioni forti e gli intrighi alla Beatiful con questo Ridge che fa impazzire le ragazzine in prima fila, che gemono ad ogni suo sussulto, ad ogni suo cambio di tono, ad ogni suo spostamento, mentre divampano le vicende di una Medea elettro.
Le musiche de “La straniera” di Oscar de Summa spaziano dall’elettronica, all’indie-pop, a colonne sonore stile “L’ultimo dei Mohicani” tanto quanto spazia De Summa, del quale ho contato 10 spostamenti in una figura quadrangolare immaginaria tracciata sul palco. Interessante il tentativo di creare uno spazio per l’ordinario, uno spazio di connessione e uno spazio per lo straordinario, collocando le voci dei vari personaggi a seguito di uno studio accurato in queste diverse dimensioni dell’essere. Forse si volevano dire un po’ troppe cose: dalla riflessione sulla violenza, al ruolo dei diversi nella società, fino al razzismo, ai rapporti tra vittime e carnefici. Un po’ troppe cose per un’ora scarsa di spettacolo. Sul finale sembrava che De Summa stesse liberando il mondo da una disgrazia imminente, sembrava essere l’eroe americano di un kolossal, nonostante le voci stridule dei bambini ammazzati lo abbiaNo tenuto fedele al testo greco, la contemporaneità ha risucchiato tutto il resto. Catarsi compresa. C’è da dire però che il suo registro tragico è stato altissimo nel corso di tutto lo spettacolo e la sua potenza di diaframma in alcuni momenti sembrava circuirci, inoltre la voce delle casse che stavano alle sue spalle incuteva quasi timore e ha portato alla riflessione silente sospirandoci un “ti sei dimenticato i tuoi sogni”.De Summa ha lavorato molto con Massimiliano Civica, che si è presentato a questo festival nelle vesti di insegnante, buona l’idea di portare la poesia e una nuova idea di scuola a teatro, però bisogna saperlo fare. Nonostante avessi di fronte a me un artista della sua portata, per come ha impostato questa lezione-spettacolo che non era né lezione, né per nulla spettacolo, a malincuore devo dire che mi sono molto annoiata. “Il bandolo della matassa” qual era?

 

(Erica Bernardi,  27 luglio 2011 www.paneacqua.eu)

QuotidianaMente Lari

Il nome rivelazione della giornata del 23 luglio 2011 al Festival Collinarea XIII di Lari è Quotidiana.com. La compagnia di Santarcangelo ha aperto le danze, a seguire Civica e De Summa.

Come strutturare un palinsesto è un grattacapo degli ultimi 25 anni, da quando zia televisione è diventata la zia nazionale di tutti. Un palinsesto rovesciato, quello della giornata del 23 luglio a Lari, rispetto a ciò a cui siamo abituati.
Prima fascia oraria concomitante ai pasti o poco successiva: solo per chi sceglie quel programma, quel prodotto, quella compagnia. Il pubblico è principalmente specializzato, ben equipaggiato per sopravvivere alla bora del castello di Lari, non stacca un secondo gli occhi dal palco da quel che sta accadendo o non accadendo. In televisione normalmente per l’alta qualità dell’opera, verrebbe trasmessa dopo Marzullo, quando anche i nottambuli stramazzano al suolo.
Rivelazione della serata la compagnia Quotidiana.com che presenta un primo studio di “Grattati e vinci”, con prima nazionale che si terrà nel corso del mese di Ottobre al VIE Festival di Modena.
Lo spettacolo si inscrive ne “La trilogia dell’inesistente”: il beckettiano duo che richiama i protagonisti di Waiting For Godot si interroga sul senso tragico, sulle connessioni tra estetica, ideologia e performance, sul sapersi collocare in questo mondo (“c’è sempre da fare i conti con la propria ignoranza”), sulla vita, sulla morte, sulla verità, sulla cultura mediatica dei giorni nostri, sui retaggi della nostra nazione, mescolando il tutto con sapienza ed ironia. Lo spettacolo si conclude con la coppia che riduce l’atto sessuale al minimalismo più estremo.”Credo nella necessità di mettere tutto in discussione” è forse la frase che maggiormente spiega questo spettacolo e questa forma di dramma-conversazione.
Seconda fascia oraria: format per famiglie, tanti bambini, lectio che vorrebbe essere all’altezza della Melevisione ma che non ce la fa. Sbadigli, poca luce, disattenzione ed un caldo da interni che si contrappone alla fredda performance. Per l’inter-actio che vorrebbe avere ma che è quasi nulla in televisione troverebbe il suo spazio dopo il telegiornale della sera, tra una parola spesa coi commensali ed una riflessione che ancora una volta ci ripetiamo a gran voce: la scatola magica è l’emblema della solitudine e dell’incomunicabilità tra le persone.
Terza fascia oraria: bollino rosso, esclusivamente per adulti, per chi ama le emozioni forti e gli intrighi alla Beatiful con questo Ridge che fa impazzire le ragazzine in prima fila, che gemono ad ogni suo sussulto, ad ogni suo cambio di tono, ad ogni suo spostamento, mentre divampano le vicende di una Medea elettro.
Le musiche de “La straniera” di Oscar de Summa spaziano dall’elettronica, all’indie-pop, a colonne sonore stile “L’ultimo dei Mohicani” tanto quanto spazia De Summa, del quale ho contato 10 spostamenti in una figura quadrangolare immaginaria tracciata sul palco. Interessante il tentativo di creare uno spazio per l’ordinario, uno spazio di connessione e uno spazio per lo straordinario, collocando le voci dei vari personaggi a seguito di uno studio accurato in queste diverse dimensioni dell’essere. Forse si volevano dire un po’ troppe cose: dalla riflessione sulla violenza, al ruolo dei diversi nella società, fino al razzismo, ai rapporti tra vittime e carnefici. Un po’ troppe cose per un’ora scarsa di spettacolo. Sul finale sembrava che De Summa stesse liberando il mondo da una disgrazia imminente, sembrava essere l’eroe americano di un kolossal, nonostante le voci stridule dei bambini ammazzati lo abbiaNo tenuto fedele al testo greco, la contemporaneità ha risucchiato tutto il resto. Catarsi compresa. C’è da dire però che il suo registro tragico è stato altissimo nel corso di tutto lo spettacolo e la sua potenza di diaframma in alcuni momenti sembrava circuirci, inoltre la voce delle casse che stavano alle sue spalle incuteva quasi timore e ha portato alla riflessione silente sospirandoci un “ti sei dimenticato i tuoi sogni”.De Summa ha lavorato molto con Massimiliano Civica, che si è presentato a questo festival nelle vesti di insegnante, buona l’idea di portare la poesia e una nuova idea di scuola a teatro, però bisogna saperlo fare. Nonostante avessi di fronte a me un artista della sua portata, per come ha impostato questa lezione-spettacolo che non era né lezione, né per nulla spettacolo, a malincuore devo dire che mi sono molto annoiata. “Il bandolo della matassa” qual era?

 

(Erica Bernardi,  27 luglio 2011 www.paneacqua.eu)

La vita umana è una lotteria scaduta: Grattati e Vinci dei quotidiana.com

Chi gestisce le risorse dello spettacolo dal vivo, incline ad avvicinarlo più a un intrattenimento di stampo televisivo che a una forma d’arte, lo ha ridotto all’effimero dell’happening. Nel frattempo ci sono compagnie che invece stanno lavorando in direzione ostinata e contraria, salvando l’evoluzione artistica personale e seguendo una maturazione di forma, di linguaggio – in una parola di stile – capace di rintracciare un percorso valido e riconoscibile. Tra questi ci sono senza dubbio i due riminesi Paola Vannoni e Roberto Scappin, dal 2003 i Quotidiana.com, che portano in scena il loro nuovo lavoro Grattati e vinci, visto per la prima volta (ma debutterà a Modena a Vie in ottobre) al Castello di Lari, per il festival Collinarea 2011.
Il loro stile nasce da dinamiche quotidiane (da qui il nome) rimodulate in scena per denunciare la stortura dei comportamenti, l’ipocrisia con cui trattiamo anche noi stessi, l’imbarazzo che non proviamo di fronte all’assurdità travestita da normale umanissima pratica e invece così destabilizzante. Questo racconto in qualche modo può dare una misura del loro lavoro, la profondità della visione con cui svelano i meccanismi deviati dei nostri rapporti umani.
In questo spettacolo al centro dell’analisi è il rapporto con il denaro – in genere con i valori e il loro significato – che la nostra società ricerca guardando il cielo ad aspettare che ne piova, asservita alla sua capacità attrattiva al punto di non distinguere più cosa sia, determinando dunque l’assurdo. Alla domanda di rito circa la nascita di questo lavoro Paola risponde: «Ero in un tabaccaio, ho comprato un biglietto del bus e una signora mi ha chiesto se fosse il nuovo Gratta e Vinci, così le ho detto di no, ma le ho detto anche che se voleva poteva grattarlo; ecco, ho immaginato che ormai si è totalmente asserviti all’idea che anche non facendo niente ci sia il modo per avere soldi, basta grattare. O grattarsi».
Due neon verticali sparati verso il pubblico alle spalle di due seggiolini da campeggio, il dialogo dei due ha una sorta di svogliatezza rivolta al tragico, ossia allo spazio d’esistenza più vitale del corpo e dell’anima umana; ma anche di questa sofferenza gli uomini non avvertono più che la scalfitura di superficie (simbolico è il suicidio come atto contro lo stato assistenzialista). La scelta linguistica è per un tono piano e quasi noncurante, la sobrietà e la simmetria come elementi detonanti per una comicità sempre potenzialmente esplosiva: questo rende quotidiana.com esponenti di un teatro intelligente e popolare, che cerca nella leggerezza e nell’acutezza di precisione il modo di svelare i meccanismi della società, senza mai evitare il ragionamento che dà a questi elementi il vigore necessario ad imporsi.
La ricerca di essenzialità è dunque una sottrazione alle parole e al movimento, in cui l’uso dell’intelligenza sopperisce alla glacialità del sentimento. Da loro non ci si aspetti l’impatto emotivo, ché non cercano quel tipo di contatto, ma provano a dimostrare una tesi con personalità e limpidezza, raggiungendo l’obiettivo quasi al contrario: con svagati accenni demenziali impongono la chiarezza della logica e della loro visione.

 

(Simone Nebbia, 26 luglio 2011 teatroecritica.net)

Come un fatto salvifico. Quotidiana.com

Ultimo giorno di Vie 2011. Roberto Scappin e Paola Vannoni ci danno appuntamento in Piazza Grande a Modena, è sabato mattina, la città è nel fermento d’inizio autunno. Entriamo nel bar della piazza e con loro ripercorriamo le tappe di questa “Trilogia dell’inesistente – Esercizi di condizione umana”, che al festival si è manifestata con l’ultimo episodio, Grattati e vinci. Come spesso accade, i Quotidiana ascoltano attenti le domande e rispondono formulandone di nuove, in un dialogo che è sempre strumento di conoscenza.  

 
Roberto Scappin: Siamo arrivati alla forma dialogica scarna che contraddistingue la trilogia in seguito a riflessioni successive all’esperienza del progetto Argo Navis di Rimini. Al tempo (2007) presentavamo Medeo, un lavoro ricco di dettagli e linguaggi, da una corporeità spinta fino al video. Eravamo sorretti dalla necessità di denunciare una realtà a noi poco consona. Probabilmente cercavamo di tenere insieme troppi aspetti e altrettante tensioni. Credevamo nell’efficacia di una forma che fosse in grado di contenere molti linguaggi, ma abbiamo avuto una risposta molto critica nei confronti del nostro operato, che abbiamo vissuto a tratti come un attacco personale. Siamo stati spinti a interrogarci sul nostro modo di fare teatro, abbiamo raccolto la critica e reagito positivamente, decidendo di realizzare un lavoro “idiota”. Abbandoniamo la presunzione di Medeo, ci siamo detti, ma continuiamo a restare convinti dell’importanza di esporre le nostre idee critiche sul mondo che ci circonda. Abbiamo cercato una forma nuova e, raccogliendo le opinioni delle persone vicine come Fabio Biondi, Silvia Bottiroli, Massimo Paganelli e altri, siamo stati incoraggiati a compiere uno studio sul linguaggio. Abbiamo messo al centro il concetto di “ovvio”, e l’empatia che ci attraversa nel quotidiano, prestando attenzione alle risposte del pubblico.
 
Paola Vannoni: Roberto parla della necessità di essere idioti, con questo termine noi intendiamo l’inefficacia di un lavoro che vuole comunicare a ogni costo degli obiettivi; abbiamo scelto di evitare di sottolineare un messaggio normativo nel testo, non vogliamo dare delle risposte. “Idiota” ha significato, almeno all’inizio, tentare di non darsi degli obiettivi: in questo modo, abbiamo pensato, forse ciò che è dentro di noi emergerà con una forma chiara e i messaggi saranno veicolati anche senza un piano progettato a tavolino. In questo è al centro la forma dialogata che hanno assunto i nostri spettacoli, per dare l’impressione di un qualcosa che fluisce senza eccessiva costruzione. Essere idioti significa puntare ad essere liberi, non farsi schiacciare dalle regole o aspettative.
 
In Sembra ma non soffro c’è un sottile equilibrio fra il peso esistenziale, per non dire il dramma, e la costante tensione comica. Si tratta di un equilibrio che ricercate?
 
P.V.: In realtà non operiamo una riflessione in questo senso, è come se la drammaticità delle nostre vite a un certo punto, automaticamente, sfociasse in una sorta di ironia, arrivando all’apice e poi liberandosi in un piano diverso: il culmine non è il grido di dolore, ma la battuta amara. Del resto per parlare del dolore non serve sprofondarci, come non serve il tono tragico, è sempre necessario trovare una via d’uscita che per noi è la comicità. Il disagio non nasce solo dalla grandi afflizioni, troviamo interessante concentrarci sulle piccole violenze, quelle crudeltà di tutti i giorni che se sommate diventano reali minacce: desideriamo metterle a nudo per esorcizzarle, condividendole con lo spettatore. 
 
R.S.: Il comico non è un aspetto sul quale lavoriamo per farlo emergere negli spettacoli; anzi, durante la costruzione del progetto evitiamo la comicità, non la pensiamo pertinente. Il comico viene da sé, spunta come un fatto salvifico. Anche perché ciò che fa ridere me non fa ridere Paola, per esempio.
 
Quali sono i testi che vi hanno ispirato e che citate durante lo spettacolo?
 
R.S.: Due autori mi accompagnano da tempo. Simone Weil e il suo trattare temi quale l’amore, la verità, Dio. Mi chiedo spesso come si possa arrivare dedicarsi a un’idea di pensiero profonda ma scollegata dalla realtà come la sua e quale consolazione possa dare questa vertigine di linguaggio, questo scollamento dal reale. 
Il secondo autore è David Foster Wallace, trovo alcuni suoi pensieri illuminanti, lo citiamo in un dialogo di Grattati e vinci: «Le persone si guardano con la stessa concentrazione distaccata con cui uno guarda ciò che sta mangiando», è una frase che dice Paola, commentandola aggiungendo: «deve essere stata una persona che ha sofferto molto se vedeva così profondamente». 
 
Quanto lavoro “che non si vede” esiste nei cinquanta minuti dello spettacolo? Quale è il vostro metodo di costruzione e scrittura?
 
P.V.: Stiamo seduti davanti alla videocamera, aspettando un’idea. In genere è Roberto che parte con una domanda dalla quale poi sviluppiamo un discorso. Questo tipo di sedute, tra le dieci e le quindici per uno spettacolo, ci portano a realizzare un girato di lunga durata, che dovrà poi essere sintetizzato attraverso un lavoro di post-produzione e montaggio molto lungo. Ci mettiamo a rivedere ogni ripresa e selezioniamo le battute che ci sembrano più efficaci e convincenti.
 
R.S.: Tale maniera di procedere è possibile solo grazie ai mezzi tecnologici, grazie al software di montaggio riusciamo a tagliare e cucire i diversi pezzi, per costruire una bozza iniziale. Eliminiamo ciò che sembra artificiale, come i tentativi che ci appaiono artificiosi di introdurre una boutade, e tratteniamo le parti dove il tempo del dialogo appare naturale e spontaneo. In questo ultimo lavoro io mi sono occupato di tale parte di selezione e montaggio.
 
P.V.: Nel pre-montaggio scegliamo in base a un’idea di come vorremmo che fosse lo spettacolo, immedesimandoci nei panni di uno spettatore. Cerchiamo di capire cosa vorremmo sentire dal palco e al contempo cosa non vorremmo guardare. In un secondo momento scriviamo il testo e continuiamo a spremere e sintetizzare per arrivare ai 50 minuti di durata. 
Quando siamo sul palco e ci riprendiamo è come se il cervello non fosse attivo, andasse in stand by, diventiamo due figure sbattute davanti alla telecamera che si interrogano sul da farsi e ingannano il tempo giocando con le parole, allo stato brado. Nel momento in cui selezioniamo emerge il nostro occhio critico.
 
R.S.: Mi viene da pensare che anche i reality show potrebbero diventare istruttivi se alle spalle avessero un lavoro di montaggio…
 
P.V.: … e se ci fossero le persone giuste, capaci di intessere dialoghi interessanti.
 
Oltre ai testi che vi hanno ispirato per lo spettacolo, ci sono esperienze artistiche che state attualmente guardando da vicino?
 
R.S.: Io sono un lettore affezionato de “Lo Straniero” e adesso sto leggendo Troppi Paradisi di Walter Siti, che mi ha fatto innamorare della sua realtà, benché forse ci siano delle descrizioni erotiche compiaciute. Ma è giusto raccontarle in quel modo, credo. È un’esperienza di linguaggio che sento affine, nella quale siamo caduti quasi per caso. Frequento anche letture distensive e “interessanti” come il Venerdì, D di Donna, poi lei si nutre di telefilm.
 
P.V.: Amo molto i thriller, perché amo l’aspetto umano più sconcertante, la mente deviata. Secondo me si tratta di rappresentazioni estremizzate degli aspetti brutali che appartengono a ognuno di noi: sono convinta che i malati di mente siano persone che per un attimo hanno visto la realtà e sono rimasti fulminati, non hanno potuto sostenere il peso della verità. Come continuare a fissare quando invece si dovrebbe distogliere lo sguardo.
 

(Bernardo Brogi www.altrevelocita.it – 22 ottobre 2011)

(Intervista di Veronica Negrelli per l’Informazione della Stampa di Modena)

“Grattati e vinci” chiude la Triologia dell’inesistente_esercizi di condizione umana. Perché, dopo la Vendetta e l’Estraneità, avete messo al centro della vostra riflessione l’Impotenza?
L’Impotenza a cui facciamo riferimento non è di tipo sessuale – anche se la sessualità non è assente nel lavoro e contaminata anch’essa da una deriva di senso -, non è un’impotenza subita ma l’espressione di una volontà. Al termine della trilogia le nostre figure si sono via via liberate di ogni rigurgito velleitario, la tensione di Tragedia tutta esteriore nell’opporsi all’ altro come responsabile delle proprie frustrazioni si è mutata nella constatazione condivisa della propria inutilità,  dell’impossibilità di agire per mutare le traiettorie del reale. Si sperimenta la propria impotenza. Ci si appropria dell’unica libertà che ci è data, dell’unico diritto che ci è riconosciuto. Quello, appunto, di non poter fare. Ma c’è una risorsa che lo stato di impotenza fa emergere, ed è la possibilità inarrestabile dell’esercizio del pensiero. Anche in Grattati e vinci  tentiamo di trasferire i nostri dubbi allo spettatore, di condividere prospettive diverse, spingendo gli interrogativi oltre i limiti della logica e del politicamente corretto.

Cosa rappresenta, in questo contesto, il “grattaevinci”?
Il grattaevinci rappresenta l’occasione coatta di rendere inopportunamente ossessive le persone, offerta effimera di felicità che si trasforma in mania.
L’ennesimo grave inganno, offerto proditoriamente dallo Stato, all’ingenuo e sciocco suddito. Si, il gratta e vinci è una subdola e raffinata strategia medievale, in tempi moderni, per riscuotere denaro e  lasciare, nella loro triste illusione, le genti. E allora noi proponiamo “Grattati e vinci”, rendi cioè la tua  esistenza simile a quella cartolina dorata e colorata che cela magiche sequenze numerali che possono regalare il sollievo temporaneo di una vincita in termini di denaro o una perdita in termini di vitalità. Gratta te stesso ma non accanirti, accarezzati, e vinci piantando una dimorfoteca in giardino o  inoltrando una serie di mail all’amico  o semplicemente grattando le pagine di un libro; oppure litiga con il tuo nemico, ma evita di aggiungere fissazioni ad assilli. La società in cui viviamo ci rende predisposti a essere plagiati così noi cerchiamo di immunizzarci con una sana reattività linguistica. Il non senso del linguaggio ci aiuta a smascherare la perversione delle leggi sociali che governano questa epoca,  così defraudata da valori un tempo condivisi. La nostra umanità è apaticamente ospitata nel labirinto del tempo presente. Si specula sulla solitudine, sul vuoto interiore, sull’evanescenza, sull’assenza di senso.

Perché i protagonisti “abitano lo spazio di due sgabelli da campeggio”?
Non li definirei protagonisti, ma parenti prossimi, fratelli, cugini,  non sono esseri caduti dal cielo. Non si nega che hanno un ruolo di primo piano ma si precisa che non è inquinato da protagonismo. I due sono assisi su uno dei più modesti oggetti che possono ospitare terga. Potevano essere seduti su oggetti ancora più umili, due massi, due pietre ad esempio, ma non volevamo restituire un’ idea filosofica o universale come il sasso potrebbe portare a pensare.  Gli sgabelli da campeggio sono una raffigurazione scomoda dell’ozio, è uno stare provvisorio reso tale dallo scarso benessere che ne deriva ma necessario come sperimentazione del non fare, piattaforma di sospensione, negoziazione, rifiuto del reale.La nostra è una riflessione da campeggio con attimi di strabiliate condivisione nell’impotenza del pic nic che sopraggiunge come elemento naturale. Possono bastare una carota e un sedano degustati all’aria aperta a evitare tentazioni da imbecilli.

Come si inseriscono in questo ultimo “esercizio di condizione umana2 la parola ed il dialogo, da sempre elementi forti per quanto in forma essenziale, del vostro teatro?
Il dialogo rappresenta lo strumento per mettere in discussione ciò che non possiamo cambiare, e attraverso la natura stessa del dialogo che sembra non cercare approdi, né avere interessi o utilità, e mettendo a nudo un’infermità del pensiero che continuamente pare sovrastarci, affermiamo la volontà di riprenderci il possesso dei significati, non solo di ciò che diciamo ma delle nostre stesse esistenze. Pronunciare parole e attendere che l’altro ne percorra il significato. Il dialogo fa avanzare le cose, non si frantuma ma dissemina possibilità. E’ una ricerca nella ricerca, quella (illusoria) della verità e quella di un nuovo linguaggio, con un uso non psicologico, non narrativo e non realistico della parola. La finzione non è più credibile. Ciò che è incredibile è la realtà.

 

(20 ottobre 2011)

Quotidiana.com: unica certezza il dubbio

Questo è un pezzo che scrivo con amicizia. Lo dico subito. Perché con molti artisti parli, molti artisti ti parlano, ma sottostante giace, macigno, l’equivoco dei ruoli, la sottile accondiscendenza o la paraculaggine del dire/non dire.

Con Paola Vannoni e Roberto Scappin questa cosa non è. E ciò per diversi motivi, il più rilevante dei quali risiede nel fatto che il tema artistico cruciale della loro forma spettacolare, che trova specchio perfino nel nome della compagnia che sempre loro due compongono, è proprio il riverbero della loro dimensione intima, caratteriale, vera.

Le sue (di lui) elucubrazioni dotte, furbette, un po’ compiaciute; il suo (di lei) spezzare le gambine con gli occhi, con la pazienza del silenzio, quello smontarlo che è gioco di apparente distruzione e che, proprio in quanto distruzione, è istruttiva per chi vuole imparare a guardare all’essenza, per dirla con Fabre.

Il gioco è sottile: che si parli dell’ultimo “Grattati e Vinci”, dal 20 al 22 ottobre in scena a VIE, o di “Sembra ma non soffro” di due anni fa, ci si trova in entrambi i casi di fronte ad una costruzione drammaturgica che avviene per flusso di coscienza, sui temi essenziali ed esistenziali del nostro vivere. Nulla che sia sempre e solo astratto, né sempre e solo materia. E’ filosofia con puzzo di sudore, alta psicologia con l’alito pesante: lo spettatore non può non trovarsi, ritrovarsi e annegare in quel dialogo di botta, risposta e silenzio della durata di quaranta-cinquanta minuti, in cui la nostra disumanità viene messa a nudo.

L’intervista che proponiamo oggi è stata realizzata molto tempo fa, nell’estate 2010 al Kilowatt festival di Sansepolcro, cui va il merito di aver sostenuto in forma piena questo sodalizio artistico. Più che un’intervista è un piccolo spettacolo privato che Vannoni/Scappin regalano al pubblico di Klp per chiarire fino in fondo come costruiscono gli spettacoli.

Spettacolo privato, dicevamo.
Ho visto “Grattati e Vinci” prima di tutti. L’ho visto in uno scantinato vuoto a Poggio Berni, in una replica due contro due con installazione di lavatrice Ignis anni Settanta impolverata sullo sfondo. Noi due (io e lei) di qua, loro due (lui e lei) di là. Erano i giorni di Santarcangelo, e Paola e Roberto, con schiettezza amicale, ci hanno chiesto se volevamo essere i primi due spettatori della loro nuova creazione, per dir loro cosa ne pensavamo.

Inutile dire che, tanto al di qua quanto al di là di quel palco improvvisato, alla fine, a capirci qualcosa erano state essenzialmente loro, senza tutte le parole di noi maschi pavoni, ma con la capacità di ascoltare, che è il dono più grande che le donne portano al genere umano. Secondo me Adamo non aveva le orecchie.

 

> Link al video

 

(Renzo Francabandera www.klpteatro.it)

Nella stessa serata al Castello di Lari il duo quotidiana.com ha debuttato con il nuovo spettacolo, Grattati e vinci, ultimo capitolo della Trilogia dell’inesistente – esercizi di condizione umana. Come nei primi due spettacoli (Tragedia tutta esteriore e Sembra ma non soffro), anche qui Roberto Scappin e Paola Vannoni sono seduti e circondati da luce al neon, questa volta gialla: i loro movimenti sono ridotti al minimo e risultano precisamente coordinati l’un con l’altra. In un clima asettico e con un tono di voce privo di inflessioni e volutamente apatico, i due danno il via a un flusso di pensieri che sprofonda in temi grevi come il suicidio, il declino delle cose, l’amore come segno della nostra miseria e una Verità che può coincidere solo con la morte. A queste sentenze, in cui non c’è nessuna volontà di moralismo o di empatia, si alternano frasi di non-sense che sembrerebbero far appartenere il duo a un teatro dell’assurdo: ma siamo in un territorio che supera Beckett facendoci ritrovare faccia a faccia con la società di oggi, dentro un blob cinico dove le canzoni della Carrà possono mescolarsi a riflessioni sulla vita. Il blob di quotidiana.com si sofferma quell’attimo in più sulle questioni, attimo che basta per far apparire, come loro stessi affermano, «le sciocchezze come spiragli dell’intelletto».

 

(Carlotta Tringali, www.tamburodikattrin.com)