(Grazia Brundu, La Nuova Sardegna, 19 ottobre 2016)
Che cosa accade se “Io muoio e tu mangi”
Il secondo capitolo del progetto portato in scena da Quotidiana.com a Sala Ichos continua la riflessione della compagnia riminese sui temi dell’assurda convivenza umana e dell’incomprensione tra le parti in gioco, pur piegando il senso dell’opera secondo un dettato morale più sostenuto e marcato.
“Oh! un Dio è l’uomo allorché sogna, un mendicante quando riflette.“
Friedrich Hölderlin, Iperione
Io muoio e tu mangi.
Nella società dell’esposizione mediatica del cibo da televisione, degli Expo cartonati e dei Masterchefperennemente alla luce della ribalta, potrebbe apparire quasi un complimento, una frase lusinghiera, una lode alla cucina dei nostri tempi veloci e confusionari e ai suoi interpreti visionari, maestri nell’andare anche oltre l’orrida morte non appena abbiano messo un po’ d’olio nella padella.
Ma Io muoio e tu mangi è un’opera teatrale, ed è una cosa terribilmente seria, per nulla seriosa, incredibilmente rigorosa ma non per questo irrigidita, terrificante nel suo scorticamento della buona morale così tipica nelle espressioni pietose di coloro che si commuovono “per le cose stupide”, eppure sempre in grado, con la citazione o l’anafora o il fulmen in clausula, di infilzare lo spettatore con un’ironia cinica e fulminante, abulica e sferzante e di rigarne dunque il viso con un riso beffardo, amaro, che muore sulle labbra neonato.
Secondo capitolo della trilogia Tutto è bene quel che finisce e in scena sull’assito di via Principe di Sannicandro fino ad oggi 6 marzo, Io muoio e tu mangi è una piéce in pieno stile Quotidiana.com: il dialogo – straniato, tagliente, assurdo, ironico – è lo strumento principe, creatore di illusioni e allucinazioni, sempre crudele (“devo essere crudele per essere buono“) e vero – e il gioco del labor limae consiste proprio nel nascondere la lima dalla scena -, mai incline a flessioni sdolcinate e di mediocre tenore; a questo linguaggio, che attinge a piene mani ora al registro della quotidianità ora a quello della citazione letteraria dotta (Dante e Hölderlin su tutti), che ora parla al pubblico con genuino artificio ed ora a se stesso in un “a parte” che segna momenti di passaggio (“Facciamo una pausa sensoriale”), si aggiunge la notevole capacità del duo Scappin/Vannoni di stare sulla scena in maniera apparentemente casuale, insensata, come se, appena tornati da un altrove, vi si trovassero a passar per caso.
E il caso in esame è quello di un vecchio, malato e rinchiuso in ospedale, costretto dallo spietato rigore clinico e dall’inumana ottusità medica a restare in vita e a condividere i miasmi delle proprie e altrui escrezioni con gli altri disperati confinati nei letti adiacenti al suo; le sue gesta (o non gesta?) sono sommessamente sussurrate in scena dalla figlia di lui (Paola Vannoni) e dal genero (Roberto Scappin), troppo impegnati a fare i conti coi propri lambiccamenti escatologici per prestare davvero attenzione alle esigenze dell’anziano, troppo presi dalle proprie riflessioni superficiali di uomini moderni per concepire davvero i bisogni dell’attempato nonnino, al punto che anche gli enunciati più sostenuti come “aborto ed eutanasia non sono che una falsa compassione” si alternano a pungenti battute – rivelatrici di tristi verità – su pannoloni, manifesti funebri e budini.
C’è più trama in questo secondo capitolo rispetto a L’anarchico non è fotogenico, c’è più storia, anche se, al solito, manca l’azione, ricreata dalle parole, dette sì piano e con la peculiare atonia che contraddistingue i lavori della compagnia riminese, ma nate forti – pur nella simulazione dell’immmediatezza – per le profonde e meditate conclusioni su temi sensibili quali l’eutanasia e la dignità della vita umana.
La morte arriva, come si canta annoiati nell’incipit, a chiudere l’esistenza del vecchio, in maniera sciocca, quasi indecorosa, senza alcuna magnificenza, senza onori e applausi: e dove andrà ora, in Paradiso, in Purgatorio o all’Inferno, conficcato nella ghiaccia dantesca? Quale tripudiò accoglierà quest’altro “domatore del dolore”?
Il buio del più nulla chiude il cuore.
(Antonio Stornaiuolo, quartaparete, 6 marzo 2016)
Della vita e della morte.
Per un teatro differente
Io muoio e tu mangi, capitolo 2 della trilogia Tutto è bene quel che finisce, 3 capitoli per una buona morte della compagnia quotidiana.com di Scappin e Vannoni in scena al Teatro Umberto di Lamezia Terme nell’ambito della XIII rassegna teatrale Ri Criiricreareilsensopresente diretta da Dario Natale.
“Devi morire. Devi morire” il memento mori dell’incipit parodiato come coro da stadio più che l’antico saluto dei monaci trappisti, ben si attaglia all’atmosfera surreale che si viene immantinente a creare con l’apparizione di Paola Vannoni coperta da un lenzuolo bianco “Non ci si può privare del fantasma del palcoscenico…”.
Mentre lui, Roberto Scappin, è un individuo con dentro il sogno di una felicità impossibile, infantile e commovente, inesorabilmente sconfitto “Posso esprimere un desiderio? Posso avere un giorno da domatore? Per domare il dolore…”
Una stanza/santuario con pochi elementi simbolici, allusivi. Parole sussurrate come si conviene a un luogo sacro. Una porta invisibile su cardini stridenti che scandisce lo spazio temporale e il rientro a casa. Le pause sensoriali. La quotidianità che logora. I versi del Paradiso dantesco usati come preghiera. Un registro linguistico che attinge all’alfabeto dell’oralità. Nessuna parola è tabù. Le terzine di Dante si mischiano a termini “bassi”, espliciti. Un linguaggio contaminato con una serie di segnali che vanno dal macabro al kitsch, dalla citazione alla canzone.
Un testo teatralmente impossibile, privo di azione, fatto di parole che rinviano a un mondo i cui valori, le convenzioni domestiche, i rapporti umani e sociali sono tutti mutati.
Eppure è portatore di una tragica e fascinosa bellezza che scatta al di là di una scrittura drammaturgica bloccata, quasi impotente ad esprimersi in modi teatrali, tenuta a freno da parole impenetrabili, nonsense e humour nero.
“Noi ci stacchiamo dal linguaggio classico, portatore di euforia[…]
Stiamo raggelando l’azione…
Non c’è azione…
il dialogo è azione…
Il dialogo è reazione…”
È la parola erosa, decelerata, sottile e dolorosa che non rispetta l’abituale destinazione comunicativa mentre nella negazione mimetica della scena devitalizzata si può leggere il più ampio assetto di una civiltà che ha smarrito il senso della vita e continua a rimandare/esorcizzare il pensiero della morte, ritenuto da sempre argomento imbarazzante.
Così, questa figlia che indossa una T-shirt con due ali d’angelo disegnate sulle scapole, senza enfasi o coloriture drammatiche, ci mette di fronte “eticamente e intimamente” al problema della morte e al suo rituale che viene ridotto e corroso fino allo sberleffo grottesco e al riverbero crudele. Un padre morente sporco di catarro in un reparto di geriatria. Una caposala la cui apparizione non è riproducibile. Le piaghe da decubito. I letti di gomma gonfiabile. La negazione di una morte dignitosa. “Gli ospedali non danno sollievo, sono luoghi di tortura…” “Abbiamo orrore della morte. Orrore dell’eutanasia. Ma sono di una dolcezza unica se c’è un saluto, un addio…”
Tuttavia, sulla traccia di questo testo denso e inafferrabile insieme, la mise en place ha una grande forza espressiva che deriva proprio dallo svuotamento dei codici teatrali convenzionali: le parole/la non interpretazione, l’essere/il non poter essere, la sofferenza per il vuoto/la denuncia del vuoto.
“La parola si è spenta […]”
Teatro per riflettere…
(Giovanna Villella, Lameziaterme.it, 2 marzo 2016)
PRIMI APPUNTI SU QUOTIDIANACOM
Le due opere – L’anarchico non è fotogenico, Io muoio e tu mangi – sono dunque parte di un progetto che non è stato ancora portato a termine. Obiettivo? Leggo dalla cartella-stampa: “Sviluppare un diverso concetto di fine, facendo riferimento all’idea politica e culturale di eutanasia e non solo”.
Impossibile comprendere l’evoluzione drammaturgica e teatrale della trilogia: sarebbe come valutare un romanzo i cui ultimi capitoli non sono stati neanche pensati o fare analisi di un polittico di cui manca una tela. Mi limito perciò solo a scrivere che nel passaggio dal primo al secondo ho percepito come una crescita dell’elemento “drammatico”, come se tutto ciò che anticipa o contraddistingue la morte in termini di strazio fisico e psicologico (il progressivo consumo del corpo, la perdita di forze e di lucidità, lo stato di abbandono e il Tavor, i pannoloni, la steatosi epatica, la bava, le piaghe da decubito, la “puzza di merda nel letto”) s’imponesse progressivamente al chiacchiericcio, alla pur continua e ostentata verbalità espressa in maniera sonnolenta, subacquea. Insomma: nel passaggio da L’anarchico a Io muoio mi pare d’intravedere sempre di più il moribondo, mi sembra di percepire sempre di più l’esistenza di un cadavere e la vita (morte compresa) – tenuta altrove dall’impegno inutile di doverne discorrere – acquista la sua centralità, imponendosi comunque.
Così se ne L’anarchico si prova a smascherare (per associazione o contrasto, per ipotesi e messa in sequenza, per logica e per assurdo) l’accanimento religio-terapeutico, che fa della propria o altrui fine un cumulo di sofferenze da considerare indegne per una civiltà che si ostina a definirsi tale (“Non voglio avere gente intorno che si affanna perché io muoio o avere gente intorno che fa di tutto per tenermi in vita, con accanto una badante. Non voglio avere gente in torno che mi odia… Siamo candele che si consumano; di noi non resta altro che uno strato di cera informe: nessuno si batte per tenere in vita una candela, nessuno si batte per tenere in vita una fiamma che si spegne”), invece in Io muoio e tu mangi la mancanza del diritto all’eutanasia diventa pratica da tormento quotidiano, che persevera e usura e che viene resa – senza voler fare messa in scena veristica – attraverso la ripetizione sempre più affranta degli stessi gesti (l’andare e venire dall’ospedale, Lei) e delle stesse frasi, dovute alla continua interrogazione di Lui. D’altronde chiunque di noi abbia vissuto l’agonia di chi è malato sa benissimo che la sofferenza ti prende per sfinimento, conquistando piano piano ogni muscolo e ogni pensiero come fosse un veleno e che nulla puoi dire, nulla puoi fare, né per evitare ciò che non è evitabile né per alleviare ciò che la (mancanza di una) legge ti impedisce di alleviare.
Dell’accumulo del verbo, che non può spiegare niente e che niente può dire di sensato, mi resta infine l’idea di questo padre offerto in sacrificio all'(a)moralità ipocrita dei precetti catto-partitici per cui si cita Dio a testimonio per impedire una buona morte mentre Dio lo si dimentica, ad esempio, quando si ruba: nonostante il settimo comandamento.
La sottile strategia della noia
Il filo (teatrale) sul quale stanno in equilibrio i Quotidiana.com è sottile e dunque pericoloso. Perché lentezza di fiato e di corpo, ripetizione verbale e motoria, uso e riuso della mono-tonia, offerta scenica più detta che interpretata, resa di una percezione dilatata del tempo attraverso l’induzione all’attesa del prossimo gesto o della prossima parola e una drammaturgia per accostamenti azzardati (il “cercare nuove pertinenze” detto da Lui), che in alcuni punti sembra composta per essere letta prima che per essere vista e ascoltata, aumentano la possibilità di caduta. C’è la noia di sotto e nessuna rete che salvi, eventualmente. Vedo così Roberto Scappin e Paola Vannoni come due acrobati – immagine che rende poco, me ne rendo conto, ma non riesco a trovarne una migliore – che tengono desta l’attenzione, passo dopo passo, in attesa di arrivare “dal punto A al punto B”.
Durante L’anarchico non è fotogenico e Io muoio e tu mangi ascolto, rifletto e collego, qualche volta rido e all’improvviso mi soffermo su un passaggio, tengo una frase, vado col pensiero a qualche episodio vissuto. E tuttavia mi capita anche di vivere momenti d’assenza, di vuoto, durante i quali non riesco a cogliere neanche il nesso potenziale tra una battuta e la battuta seguente; mi accade e penso che sono momenti nei quali potrei uscire, prendere una boccata d’aria e ritornare in platea, avendo la sensazione (giusta o sbagliata) di non aver perso nulla che valesse la pena di non essere perso. Sono questi momenti che mi portano adesso a interrogarmi su quanto possa essere mortale o salvifica la specificità estrema di una poetica artistica, che contraddistingue fino a farsi rigorosamente identitaria (ed è fondamentale, a maggior ragione per una compagnia indipendente) ma che rischia di ridursi alla riproduzione di se stessa (sarebbe deleterio), finendo per diventare paradossalmente essa stessa una lingua che viene recepita e compresa soltanto dai solidali, dagli abitué, da coloro che già la conoscono e che non attendono altro che di tornare a parlarla o sentirla parlare. C’è la possibilità, mi chiedo, che questa stessa identità poetica diventi insomma un recinto, un guscio protettivo o − peggio ancora − una forma fissa, un canone che si autoriproduce, un’abitudine? (tralascio un’altra domanda più basilare: perché l’uso dei microfoni in un teatro come Sala Ichòs, quando siamo a un metro di distanza e siamo una ventina in platea? Cosa significa questo in termini attorali o di ricerca sulla voce?).
Ho visto troppo poco per farmi un’idea anche minima della poetica dei Quotidiana.com (lo ribadisco: sono al primo vero incontro con loro) ed è per questo che termino rimanendomene sospeso, come sono sospesi Scappin e la Vannoni in questo loro percorso compositivo: io e loro, per ragioni diverse ma destinate a coincidere, ce ne stiamo così, in attesa dell’ultima parte della trilogia.
(Alessandro Toppi, ilpickwick.it, marzo 2016)
Bisogna affrontare con mente tersa e animo sgombro gli spettacoli di quotidiana.com. almeno i più recenti, che stanno per composrsi in un trilogia. L’anarchico non è fotogenico, il primo movimento di questa sonata ‘per una buona morte’, l’abbiamo recensito un anno fa a Castrovillari (Hystrio n. 3/2014), proprio dalla stessa Sala 14 dove ha preso ora forma di prima nazionale anche Io muoio e tu mangi, secondo movimento, cui nel corso dell’estate farà seguito Lei è Gesù. La mente dev’essere tersa per poter tenere il passo con la serrata logica di pensiero a cui i dialoghi tra Roberto Scappin e Paola Vannoni costringono chi ascolta. Botta e risposta, dal taglio lapidario, che lasciano una coda di riflessioni. Lei pone la questione, lui replica, spesso facendo ricorso a formule usurate di linguaggio, dentro alle quali lascia però baluginare una deriva di senso, che diventa ben presto illuminazione. O viceversa. Per esempio un «de-vi mo-ri-re». Uno di quegli insulti scanditi allo stadio dalla tifoseria avversaria, nel laconico dialogo dei due si trasforma in un memento mori, che mette insieme pietà e sarcasmo.
Al centro di questo secondo movimento c’è infatti una morte, non solo annunciata, ma continuamente differita, che ci sembra aver toccato di persona uno dei due performer. «Forse anche mio padre avrebbe voluto la sua sindone». Ma la pratica ospedaliera contemporanea, tra padiglioni di geriatria e accanimenti terapeutici, tende a prolungare il più possibile la stesura di quel velo, sempre più ossessionata dal grande tabù della nostra epoca, la prima ad aver voluto rimuovere dal concetto di vita quello di morte. Di questo, in prima persona, parlano i due. Di un Paese che coltiva i crocifissi e nega dignità ai moribondi, ed equipara eutanasia e omicidio. Li aiutano a tenere l’animo sgombro Jarl Krauss («il grande odiatore»)e alcune terzine del Paradiso di Dante.
(Roberto Canziani, Hystrio n. 3/2015)
[…] E si confronta con il concetto di morte Io muoio e tu mangi dei Quotidiana.com, secondo capitolo della trilogia Tutto è bene quel che finisce.
Nel primo capitolo L’anarchico non è fotogenico (visto nella rassegna sassarese Marosi di Mutezza) Paola Vannoni e Roberto Scappin elencano una serie di atteggiamenti che non dovrebbero sopravvivere, dal sentimento del Natale alla flemma degli operai comunali, dall’incapacità di attuare un progetto sovversivo all’ignavia che impedisce di costruire un mondo migliore.
Morti impossibili, eutanasie negate, nella cultura e nel teatro, nella politica e nella vita.
Ad essere portata sul palco dell’Auditorium di Santa Chiara è una malattia in età senile, una quotidianità ospedaliera, è una riflessione sulla dignità della vita.
Nella scena – sempre asettica e illuminata con luci a neon – pochi elementi, due sedie, l’una di fronte all’altra, una Madonna col bambino sul fondo, e un lenzuolo che ha più di una valore, a sottolineare che in teatro ogni oggetto può avere qualsiasi funzione si decida di attribuirgli. Il telo bianco, abbandonato sul proscenio, è un sudario, quello del padre di Paola, è il gatto, presenza costante nella vita della coppia, ma è anche la cena da consumare e un simbolo di intimità – «le tenerezze che ci scambieremo più tardi».
Tutto è giocato sul dialogo, che scivola lento, con quel tono apatico cui i Quotidiana ci hanno abituato, quell’ironia sottile, quell’amarezza di vivere che stavolta si fa ancora più amara.
Poche, pochissime le azioni, spesso ridicolizzate, a porre l’accento sull’impossibilità (o l’inutilità) di riprodurre in teatro i gesti del quotidiano.
C’è, in Io muoio e tu mangi, la critica di un sistema, la difficoltà a incanalarsi in schemi precostituiti, l’attacco alla morale cristiana, il confronto tra la generazione dei padri e quella dei figli.
Il tutto cullato da quell’andatura indolente che costituisce la cifra dei due artisti, che ce li rende immediatamente riconoscibili, e prossimi, per la loro capacità di affrontare con naturalezza, le piccolezze del quotidiano e i misteri universali.
Parlare agli uomini, appunto. E in mezzo a loro portare il teatro.
(Rossella Porcheddu, 7 agosto 2015)
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‘Io muoio e tu mangi’ dei Quotidiana.com: non chiamatelo nonsense.
Gli spettacoli dei Quotidiana.com non si possono definire “spettacoli”. Non c’è niente che possa chiamarsi spettacolare.
Nella completa negazione dei parametri teatrali, luci fisse, di solito unneon basso a creare freddezza e distanza, nessuna musica, niente video, e il duo a guardarsi di profilo seduti a pochi passi e a lanciarsi frasi, nette e senza intonazione, decise e senza recitazione, con lentezza, scarne e precise e senza enfasi, atonali e monocorde.
Pare essere il rifiuto del teatro, certamente l’abominio di alcuni (quelli che vanno per la maggiore) parametri scenici. In slow motion, spot lanciati al rallenty che sembrano che perdano forza e invece ne guadagnano.
Senza espressione né intenzione. O li ami o li odi.
O riesci ad entrare nel loro codice binario, dove il contenuto ha assolutamente la sua rilevanza e predominanza rispetto alla forma (o al suo abbattimento), oppure sei tagliato fuori.
Molti ridono. Non c’è niente da ridere nella disperazione (e forse si ride per allontanare ed esorcizzare la causa, istericamente come ad alcuni accade ai funerali), in quella rabbia che non riesce più ad avere nemici sui quali scagliarsi.
Il loro percorso teatrale è un’unica piece, uno stesso flusso di parole secche, rattrappite e raggrinzite, una sola riflessione che, se ascoltata attentamente, apre i chakra delle possibilità e le tangenziali di altri mondi.
Confinarli nel teatro dell’assurdo o dargli del “nonsense” è da una parte assurdo e dall’altra non ha senso. Significa non aver colto il grande disegno (affondo il colpo e tento l’aggettivo iperbolico) filosofico, di lotta al sistema, di confutazione di stili e schemi precisi.
La loro è una lotta senza quartiere che stavolta prende di mira non tanto la morte ma quanto il fine vita ci renda peggiori, ci faccia sentire tutto il peso dello stare al mondo, della nostra inutilità, del nostro essere spiccioli dimenticabili, passaggi rinunciabili, già cadaveri fin dal primo vagito.
È proprio nel titolo “Io muoio, tu mangi” (c’è un che da Conte Ugolino che striscia) sta tutta la banalità del motto “la vita comunque continua” che in definitiva è il “the show must go on” teatrale. Il brutto è che poche volte c’è uno “spettacolo” da salvare e nella maggior parte dei casi è bene chiamarlo con il suo nome: tragedia.
Normalità raggelante.
Molti, teatralmente parlando, negli ultimi anni, hanno scritto di malattia, morte e se vogliamo anche di eutanasia, da Romeo Castellucci con il suo controverso “Sul concetto di volto nel Figlio di Dio” con questo genitore che non riusciva più a trattenere i propri bisogni fisiologici ed imbrattava di terreno sporco il bianco delle sovrastrutture che ci siamo inventati, o Giulio D’Anna in “Parkin’son” che danzava con il padre affetto dalla stessa patologia del titolo, o ancora i Cuocolo/Bosetti con “Roberta torna a casa”, quando alla perdita di memoria della madre faceva da contraltare il ritorno alla memoria dell’infanzia e dell’adolescenza della figlia che ritornava dopo decenni lì dove era nata e cresciuta, in questo scambio di clessidre generazionale.
Qui un padre che se ne sta andando lascia la sua scia, la sua bava collosa e appiccicosa (quella della lumaca che indica il passaggio) attorno al suo piccolo mondo di parentame, un universo insignificante che si squaglia, che si sfalda tra richieste minime, in un tempo sospeso che non passa, indecisi se tentare di fermarlo o se accelerare verso l’inevitabile catastrofe, che non è mai una liberazione. Nella loro analisi, che si aggroviglia e s’inerpica tra strade di pensiero poco battute e rovi, nel loro labirinto di concetti, pare che s’incartino, che arrivino al loro stallo-“finale di partita”, li vedi con le spalle al muro, credendo nel crollo, ed invece trovano la scappatoia, la via d’uscita, con un colpo di coda dialettico, con un guizzo di pensiero.
A tratti, togliendo la velocità d’esecuzione (arrivano allo stesso punto utilizzando metodologie agli antipodi), è possibile tracciare un ponte intellettuale tra i Quotidiana e Alessandro Bergonzoni.
L’ironia con la quale infarciscono i loro dibattiti, i loro cori accorati a due (uno davanti all’altra in posizione da sparo da Far West), fa da sala d’aspetto, da luogo preparatorio, da preliminari tenui prima dello schiaffo, prima del taglio netto, prima del cataclisma.
Non sono allarmisti, non sono enfatici, non li sentirai piangere; nel loro aplomb contenuto e concentrato, endogeno ed autoriflesso, nel loro eremo non vogliono convincere nessuno, non fanno comizi o cortei né tanto meno proseliti.
Non vogliono venderci alcun prodotto, è per questo che non hanno l’aria suadente e non bucano lo schermo: semplicemente non ne hanno bisogno.
Soffici e agghiaccianti. Morbidi e tremendi. Vellutati e atterrenti. Hanno fatto il giro.
Loro sono la boa.
(Tommaso Chimenti, 1 agosto 2015) Visto al Festival “Kilowatt” Sansepolcro il 23 luglio 2015.
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Cronaca teatrale per lampi dello spettacolo di e con Paola Vannoni e Roberto Scappin visto a Inequilibrio Festival.
È arrivata l’estate.
Desidero sperimentare, per una parte dei lavori che vedrò nei prossimi mesi, una modalità di restituzione che funziona così: durante gli spettacoli prendo alcuni appunti sul mio taccuino. Inevitabilmente (anzi: intenzionalmente) frammentari.
A seguire li ricopio qui.
Nessun approfondimento.
Alcuni lampi.
So già che qualche artista vanitoso si offenderà «perché la sua ricerca richiederebbe ben altra attenzione» rispetto a queste poche righe.
Pazienza.
Mi consolo in anticipo con Ennio Flaiano: «Il segreto è raggiungere da professionisti la disinvoltura dei dilettanti, non prevalere, far credere che la cosa sia estremamente facile, un divertimento che trova la sua ragione di esistere nel fatto di essere più leggero dell’aria».
Buona lettura.
Io muoio tu mangi
Lui Nessuno che resuscita?
Lei Che io sappia no.
Si ride.
Del disastro.
Tragedia e commedia.
Meglio: tragedia e anti-tragedia.
Lui Che brutta faccia oggi! L’ospedale non ti giova…
Lei Se avessi un’arma adesso la userei.
Lui Avresti sotto tiro il bersaglio?
Lei Sei la sagoma perfetta!
Pausa
Una differenza rispetto ad altri loro lavori: qui non si sta attorno a un tema, qui si racconta una storia.
Lei Ieri arrivo nella stanza di mio padre… In geriatria…. c’era la Maria…
La morte del padre.
Lei Dico: “Come va?”, (la imita) “Ah, no è che tuo padre è tutto sporco, aveva tutta maglietta sporca di catarro, no? sono passate infermiere, hanno cambiato e hanno lasciato maglietta sporca”.
Ritmi perfetti, armi affilate.
Lui Stiamo raggelando l’azione?
Lei Non c’è azione.
Lui Il dialogo è azione.
Lei È re-azione
Armi col silenziatore.
Col detonatore.
Lei A mio padre o gli date una alimentazione alternativa oppure lo fate morire con dignità. Non prendiamoci in giro, che lo lasciate crepare così lentamente… un’agonia!
Viene in mente Mariangela Gualtieri.
Distanza siderale da Paola e Roberto.
O forse no.
Ba’, sono guerriera tutta composta d’urlo / e di sostanza acida e sbatto con / bravura potente.
Lei (alza il capo al soffitto e cerca la voce del padre) Vorrei vedere un film qualunque, tanto per passare un po’ il tempo, sennò qui… cara mia… Paola… non ne posso più! E stamattina via, via, a fare i raggi là all’ospedale grande, sulla corriera … tengo botta ma… finché ce la faccio.
Lui Ma sai che fai proprio bene la voce di tuo babbo? Sembri lui.
Lei (ruota appena la testa verso di lui) Se fossi lui?…
Lui Qui bisogna stare attenti perché si rischia di fare la voce del vecchietto del far west.
MG Mio caro bà, io patisco per / poche cose che ci piangono e sono / assai modeste, assai assai.
Lei Quel giorno mio fratello ha lasciato il pasto a metà per correre da mio padre in ospedale. Quando è arrivato gli ha detto… “ Io muoio e tu mangi?”
MG Caro ba’, qui il sudario non ce l’hanno cavato / e tu vedessi come certe cose leggere sventano / e altre ancora galleggiano.
Lei Oggi il babbo non parlava, faceva solo con la bocca… (mima il tentativo di parlare). Credo che le ultime parole le abbia usate per chiedere alla badante un bicchier d’acqua… mi ha detto che le ha offerto dei soldi…”Ti pago, ti pago… un bicchier d’acqua… ti pago… “. Pensa a come si deve ridurre un uomo di 92 anni in ospedale… a implorare un bicchier d’acqua!
Lui Sta morendo di sete.
MG Oh! esseri di sospiramento / figlioli piccoli, lungole vaghe del latte, / e le lucenti colorature delle persone / dentro quel punto sbrenco de li occhi / dentro le multiple capigliature.
Paola ha una maglia nera con due ali disegnate sulla schiena.
A terra una coppa con manici-ali.
MG Misero tempo con slabbro, ba’, misero battimento / di ali pesanti, non si assolleva la sacra persona / non si assolleva.
Questi due amici, Paola e Roberto, mi hanno imbrogliato.
Mi sembravano più che altro persone intelligenti, serie e simpatiche.
E invece.
Questi due sono geni.
Lei Adesso dovrebbe succedere qualcosa.
Lui Per esempio?
Lei Io vengo lì e tu vieni qui.
Si alzano e occupano il posto dell’altro.
Lui È già qualcosa.
Geni dinamitardi.
(Michele Pascarella, 6 luglio 2015) Visto a Castiglioncello (LI), 4 luglio 2015
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In continuità con lo stile graffiante e disincantato dei lavori di questa compagnia dai contenuti “esistenziali” legati al nostro presente, in questa piece si riflette sulla malattia e la morte, sull’eutanasia e la pietas, sul potere e l’impotenza.
C’è da sottolineare che, come già detto nelle recensioni dei loro precedenti lavori, questa Compagnia spicca nel panorama nazionale per l’originalità di linguaggio e l’intelligenza dei testi, puntuali e profondi, capaci di scavare nel linguaggio e nei suoi luoghi comuni e nella formazione nella mente del pensiero e del giudizio.
Come sempre un lavoro interessante, ”distrattamente” profondo e ironico, forse con qualche concessione comica di troppo al pubblico.
(Emanuela Dal Pozzo, luglio 2015)
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[…] A seguire, il grottesco affresco offerto da Quotidiana.com con Io muoio e tu mangi, seconda tappa di una trilogia intitolata Tutto è bene quel che finisce, Tre capitoli per una buona morte.
Il gruppo romagnolo, nel consueto apparire sulla scena come per caso, tra conversazioni monologiche e senza alcuna espressività, mette a confronto due universi paralleli.
Quello, concentrazionario, desolante e violento della corsia geriatrica, dove un padre sta spegnendosi lentamente, che viene raccontato a spizzichi da Paola Vannoni.
E quello domestico, dove la stessa Vannoni e Roberto Scappin vivono la propria vita quotidiana, tra cinismi e voglia di tenerezza. Tra gli infiniti non sense che la vita stessa porge a tutti giorno dopo giorno.
Citazioni sferzanti, parentesi meta teatrali in cui viene denudato senza pietà il meccanismo finzionale del teatro, accompagnano questo calvario narrato con rabbia e rassegnazione.
Il pizzico di follia di molte battute induce al riso, ma è un riso piuttosto allucinato e amaro, inserito com’è nell’assurdità costante dell’esistenza, cui certamente si richiama anche il nome scelto dal gruppo.
Si può supporre che un evento realmente accaduto all’attrice – la malattia e la successiva morte del padre – sia stato «virato» in termini scenici. Ma in fondo non è poi così importante di fronte al vuoto che viene presentato in scena, dove l’inadeguatezza, anzi l’impossibilità di comprendere la morte da parte di una società che si considera immortale è descritto mirabilmente, pur senza vocazioni alla denuncia o al moralismo.
L’ospedale, le infermiere incuranti, i medici assenti, la sporcizia, gli umori della malattia sono evocati «per procura», da lontano, e sono messi a confronto con il normale, routinario scandirsi della vita di coppia.
Emblematico, nel suo potere straniante, il coretto da stadio «Devi morire», proposto in apertura e conclusione.
(Leonardo Mello, 23 giugno 2015)
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[…] Ritornano a Castrovillari Roberto Scappin e Paola Vannoni autori e interpreti di Io muoio e tu mangi 2° capitolo di Tutto è bene quel che finisce dell’anno passato, che è poi il rimprovero rivolto al figlio dal padre che sta morendo.
Come ormai ci hanno abituato, i due personaggi utilizzano una linguaggio demenziale, ricco di nonsense e di battute gettate lì con nonchalance tali da suscitare ilarità e un’intelligente comicità.
La scena è quella d’una camera mortuaria con al centro un quadro raffigurante una Madonna con Bambino e col papà di lei che se sta lì defunto di lato.
I due seduti uno di fronte all’altro discutono con molto fair play dell’uomo che per 30 anni ha svolto volontariato alla Caritas, delle visite in ospedale, degli infermieri, e quali possono essere i trastulli d’un uomo in quei luoghi dell’aldilà che sono il paradiso, il purgatorio e l’inferno, augurando al genitore il limbo dove c’è almeno una discoteca con i morti che ballano come gli astronauti nello spazio.
Forse c’è meno mordente rispetto al precedente spettacolo, ma la coppia è davvero brava e lui che fa il resoconto d’una giornata passata in geriatria è davvero molto divertente.
(Gigi Giacobbe, 13 giugno 2015)
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(Il Sole 24 Ore, 7 giugno 2015)
[…] A fronte della rigogliosa e sulfurea scrittura di Enzo Moscato, c’è la scabra e scarna dialettica di Quotidiana.com, il duo riminese che esce dal proprio mondo appartato per proporre ogni volta surreali e stranianti dialoghi.
A Castrovillari, Roberto Scappin e Paola Vannoni hanno presentato il secondo capitolo della trilogia Tutto è bene quel che finisce.
Stavolta il titolo, significativo, è Io muoio tu mangi! anatema sconfortato e severo che il padre ricoverato terminale lancia al figlio.
Proprio dalla condizione dell’assistenza ospedaliera, dell’accanimento terapeutico, dell’impossibilità tutta italiana e cattolica di morire (e di vivere) senza soffrire troppo, si dipana il racconto, rarefatto e surreale, disteso in un tempo lento, sospeso in un vuoto volutamente angosciante.
Quotidiana.com lavora da sempre così: stiracchiando, sussurrando, togliendo, sospirando, negando ogni possibile spettacolarizzazione o buttandola in parodia.
Accerchiano la noia, la corteggiano, si distillano in tempi sfranti, in dialoghi sempre al limite della grottesca e impacciata caducità.
Qui mettono assieme la commedia di Dante e la geriatria, la morte in ospedale e il Paradiso, una metateatralità sorniona e una denuncia – aspra e amara – del cristianissimo culto del dolore.
Come reggere alla morte del padre, come non scendere a compromessi con la dignità di una persona che vuole solo morire e non gli è concesso?
Lo spettacolo, nella sua radicale antispettacolarità, ha dalla sua la cifra sghemba e avviluppante del gruppo, quell’ironia caustica che tutto e tutti travolge (prima di tutti gli autori stessi): il rischio, all’orizzonte, è che tale cifra si faccia maniera, soluzione rapida, addirittura escamotage. Però quel cupo, nero, sottile, ipercontemporaneo sguardo sul presente ha ancora molto da raccontare.
(Andrea Porcheddu, 6 giugno 2015)
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Nel nuovo lavoro dei Quotidiana.com viene posto in luce, con un’evidenza quasi dimostrativa, il contrasto fra la nuda immediatezza del racconto ospedaliero e l’imbarazzo, l’inadeguatezza della nostra società di fronte a un tema cruciale come quello della morte.
C’è qualcosa di diverso dal solito in Io muoio e tu mangi!, il nuovo spettacolo dei Quotidiana.com, secondo capitolo della trilogia Tutto è bene quel che finisce, presentato al festival “Primavera dei Teatri”. Al centro del consueto, gelido scambio verbale fra i due autori-interpreti, Paola Vannoni e Roberto Scappin, c’è stavolta una vicenda dolorosa, il resoconto da parte di lei – duro, straziante – delle quotidiane visite al padre agonizzante nel reparto geriatrico dell’ospedale, fra medici inadeguati e infermiere indifferenti. Paola descrive il declino fisico del vecchio, il suo lento avvicinarsi alla fine, Roberto fa i suoi commenti più o meno feroci. «Io muoio e tu mangi» è l’eloquente frase rivolta dal genitore al figlio che ha interrotto il pasto per accorrere al suo capezzale.
Il cambiamento di tono, ma anche di taglio complessivo, non è di poco conto. Negli spettacoli dei Quotidiana ci sono sempre dei chiari e diretti riferimenti autobiografici, ma come diluiti in un impasto dialettico più vario e sfaccettato. Qui, invece, mi è parso che questo segmento di dolore puro da cui tutto parte e prende corpo fosse molto più esteso e invadente di quanto normalmente non accada. Si direbbe che sovrasti ogni altra componente, o perché quel sentimento è talmente urgente da dovergli lasciare uno spazio preponderante, o perché è mancato il tempo di finire e rifinire il testo prosciugandolo a dovere. In entrambi i casi, però, questo squilibrio – che magari verrà corretto – non disturba affatto, anzi aiuta a penetrare meglio nel loro metodo di lavoro.
Si coglie bene, così, che quella loro scrittura all’apparenza surreale è nutrita di fatto da forti nuclei di realtà, che poi vengono via via trasfigurati e tradotti in folgoranti cortocircuiti mentali, lucidi esercizi di cinismo, spericolate incursioni negli impervi territori del non-senso. Questi nuclei di realtà, grandi o piccoli che siano – il passato di Paola con un gruppo di donne dark in Sembra, ma non soffropiuttosto che il penoso attacco di diarrea dello stesso padre di lei in L’anarchico non è fotogenico –sono un reagente che attiva risposte in diverse direzioni, l’esasperazione parodistica di un bla bla filosofico e religioso, ma anche lo sguardo sarcastico sulle dinamiche della relazione di coppia, sempre implicite nei loro dialoghi, o le immancabili riflessioni meta-teatrali.
In Io muoio e tu mangi! viene posto in luce, con un’evidenza quasi dimostrativa, il contrasto fra la nuda immediatezza del racconto ospedaliero, fatto di pannoloni e schizzi di catarro, e l’imbarazzo, l’inadeguatezza della nostra società di fronte a un tema cruciale come quello della morte, soprattutto di una morte attesa e invocata come una liberazione: è emblematico, in questo senso, il ricorso al proverbiale coretto scandito dai tifosi delle Curve nei confronti dei giocatori avversari, Devi mori-re!!! Devi mori-re!!!, che diventa specchio di un’epoca in cui la morte è ridotta a slogan da stadio. Ed è non meno emblematico l’irridente parallelismo tra l’estrema unzione e le istruzioni delle hostess sui comportamenti da seguire in caso di incidente aereo, ovvero «l’estrema unzione Ryanair».
Fra «pause sensoriali» e citazioni di Karl Kraus, anche in questo spettacolo c’è tutto il repertorio delle spiazzanti invenzioni di questo duo che non punta né alla satira né alla denuncia, né a fare ridere né a fare piangere, ma vuole mettere l’individuo di fronte a se stesso e alla propria pochezza, alla propria incapacità di dare un senso alla vita: c’è la recitazione sottotono, vuota, assente che è ormai un loro marchio di fabbrica, c’è la consueta messa a nudo dell’artificio teatrale («stiamo raggelando l’azione», dice lui. «Ma non c’è azione», risponde lei. «Anche il dialogo è azione», ribatte lui). C’è persino una sorta di fulminea dichiarazione di principi, quasi il mini-manifesto di una poetica: «il buonismo è la cosa più crudele che esista. Devo essere crudele per essere buono».
Ma il filo conduttore di Io muoio e tu mangi! è quell’impietoso spaccato dell’inferno geriatrico, quella cronaca inesorabile di un’esistenza che si va atrocemente spegnendo. Non so se l’attrice abbia davvero perso il padre di recente in quel modo, ma tutto sommato poco importa: c’è, nella sfrontata franchezza della sua esposizione, un sottofondo di sincerità che comunque graffia e fa male. Le varie forme dell’auto-rappresentazione, l’uso diretto di frammenti della propria vita appartengono al bagaglio dei nuovi gruppi di questi anni. Ma l’aspetto inusuale è che qui l’esperienza di un lutto personale venga trasferita pari pari in un contesto da teatro dell’assurdo, un corpo estraneo che diventa però un elemento di rottura stilistica e un potente catalizzatore di pensiero.
(Renato Palazzi, 5 giugno 2015, Visto a Castrovillari, al festival Primavera dei Teatri)
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Prima nazionale per il secondo capitolo della trilogia dei quotidiana.com dal titolo eloquente “Tutto è bene quel che finisce”. I due cowboys paradossali del primo capitolo lasciano spazio a due figure ben più quotidiane, ma la cifra stilistica del duo romagnolo resta inconfondibile: dialoghi ostinatamente flemmatici, ironia caustica, un disincantato senso di frustrazione.
La drammaturgia dei quotidiana.com viaggia in direzione ostinata e contraria. Argomenti scomodi in forme scomode, uno sguardo lucido sul presente e mai banale, declinato e dilatato in modi e tempi lenti, che ribaltano le aspettative: un teatro non di facile diffusione.
“Io muoio e tu mangi!” è un flusso di coscienza a due voci che prende spunto da un episodio autobiografico: l’agonia di una morte attesa, desiderata del padre novantaduenne della protagonista, vittima come suo padre del sistema ospedaliero che prolunga la vita e dunque la sofferenza.
La figlia protagonista assiste il padre ogni giorno, e al rientro a casa racconta le assurdità vissute lì dentro al compagno, che con cinica ironia le commenta. Il dialogo tra i due si evolve in un viaggio tra vita e aldilà, sollevando la necessità di una morte che dia dignità anche alla vita che la precede. La narrazione coinvolge lo spettatore direttamente, impedendo alla finzione scenica di innescarsi (altro elemento caratteristico del teatro dei quotidiana.com): il pubblico è chiamato in causa, la battuta finale dello spettacolo coincide con l’applauso degli spettatori.
Interessante è la leggerezza associata a temi tanto impegnativi: una leggerezza disincantata e fredda, affatto spensierata, ma forse l’unica arma contro l’impotenza che l’individuo sperimenta quotidianamente. Il pubblico ride, ma le espressioni serie e coinvolte dei protagonisti, anche a fine rappresentazione, raggelano la risata in inquieta amarezza.
Al duo riminese vanno riconosciuti la coerenza ed il merito di non piegarsi alle tipiche dinamiche del mondo dello spettacolo, proponendo un teatro libero espressione del libero pensiero.
(Sabrina Fasanella, 3 Giugno 2015)
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[…] Le quotidiane visite di una figlia al padre in fin di vita, il dialogo intessuto di algida ironia con il compagno che l’attende, i volti assurdamente normali ed esilaranti di infermiere, caposale e pazienti, di volta in volta evocati in una sorta di giudizio terreno sull’assenza di pena, di amore, di senso a quel tutto e a quel niente che chiamiamo vita. Con il tema della “dolce morte” che entra ed esce dalla messa in scena, come in un puntuale ma del tutto casuale gioco di sliding doors.
Io muoio e tu mangi!, prodotto dalla compagniaQuotidiana.com, è stato presentato in prima nazionale all’edizione numero 16 di Primavera dei Teatri a conclusione di una giornata densa di avvenimenti – a cominciare dalla presentazione pomeridiana del nuovo libro di Andrea Porcheddu, Infedele alla linea (Maschietto Editore, postfazione di Ascanio Celestini, illustrazioni di Cristina Gardumi), brillante finto noir, in realtà acuta spiata su vizi e virtù del vasto mondo del teatro e di un Paese complicato e inane –, di emozioni, di discussioni sul visto e sul vissuto.
Secondo capitolo della trilogia Tutto è bene quel che finisce (tre capitoli per una buona morte), questo lavoro di e con Roberto Scappin e Paola Vannoni – bravi, volutamente ipercontrollati, quasi asettici: dunque nel pieno possesso di tutti i requisiti di una ricerca sui disvalori – rovescia i canoni classici del racconto teatrale (e non) partendo dal presupposto che da un’indegna fine, da una ignobile (nel senso letterale del termine) conclusione consegue una vita priva di senso, di valore, di utilità.
Quotidiana.com prosegue, così, con questa pièce che si sviluppa tra i toni dell’assurdo e quelli dello sgomento, nel solco di un percorso intrapreso sin dai tempi della Trilogia dell’inesistente, con cui la compagnia aveva vinto il Premio Stefano Casagrande – Teatri di Vita, Bologna.
Io muoio e tu mangi! rientra perfettamente in un contesto teatrale che affronta il pensiero scorretto, amorale, crudele e pressocché indeclinabile (dall’alto in basso, dall’eutanasia giù fino al “rompimento di balle” di dover assistere un anziano morente), e lo fa procedendo per sconfinamenti nell’essenziale della parola, infilando una sottile tagliente lama ghiacciata nelle carni di un corpo sempre più inerme. Come i lavori che lo hanno preceduto, attraverso i personaggi che lo dis-animano, tenta di «porsi in uno stato limbale, in una condizione di incertezza, di attesa».
(Antonello Fazio, 2 giugno 2015)
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